“Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento” è il titolo della mostra allestita nella romana Galleria d’arte antica in Palazzo Barberini che rimarrà aperta fino al 27 marzo dell’anno prossimo.

Trentuno tele raccontano le tante interpretazioni del mito di Giuditta, l’eroina del popolo ebraico che liberò la sua città dall’assedio degli Assiri del re Nabucodonosor uccidendo il loro generale Oloferne. Ma ci volle una donna per calarsi completamente nei panni dell’eroina biblica: Artemisia Gentileschi cui è dedicata la terza sezione della mostra.

La visione dei due pittori, come fa notare la curatrice Maria Cristina Terzaghi, è completamente opposta: “Caravaggio si immedesima in Oloferne per interrogarsi su cosa accade nel momento della morte. Artemisia si immedesima in Giuditta”. A questo va aggiunta la diversità anagrafica della figura della serva: anziana per lui, giovane per lei e immaginata per rievocare lo stupro subito da Agostino Tassi, il pittore amico del padre. Fu infatti Orazio Gentileschi stesso ad incaricarlo di insegnare la prospettiva alla figlia.

Durante il processo per stupro che Orazio intentò contro Tassi, Artemisia dichiarò: ”E avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una matta stretta al membro che gliene levai anche un pezzo di carne. Con tutto ciò lui non stimò niente e continuò a fare il fatto suo che mi stette un pezzo addosso tenendomi il membro dentro la natura”.

Possiamo immaginare gli incubi di Artemisia prima degli interrogatori al processo: “Mi crederanno o non mi crederanno? Cosa devo dire? Cosa non devo dire? Sarò giudicata per quello che dico o per quello che pensano io abbia fatto? Inventato tutto? Ceduto o acconsentito?”

Parole che risuonano anche oggi perché le donne vengono accusate di denunciare “con ritardo” e non subito, la violenza subita.

Ma torniamo a Giuditta e Oloferne. Molti studi hanno messo a confronto gli avvenimenti della vita di Artemisia con la sua opera. Caratteristica, questa, che la proietta oltre i secoli e la pone ancora oggi di fronte ai nostri occhi disincantati con una tale forza e determinazione, che non possiamo fare a meno di immergerci in questo dipinto veleggiando anche noi tra incanto e ferocia, tra forza e smarrimento. All’unisono, insomma, con quella mano che lo ha dipinto con sapiente magia. Quella mano che è stata immortalata da P. Dumonstier le Jeune nel disegno “La mano di Artemisia” (Londra British Museum).

E’ giudizio indiscusso che ad Artemisia si deve una delle Giuditte più violente della storia della pittura. Amore e Morte si intrecciano nella tela.

Come in una scena di teatro partiamo dai personaggi: Giuditta, Oloferne e la serva. Sì, perché la tela di Artemisia Gentileschi è una vera e propria messa in scena. Mise es éspace si chiamano i lavori che precedono la messa in scena vera e propria. Ma in questo quadro possiamo chiederci: qui è mise en éspace o vero teatro? Alziamo il sipario. Ecco cosa vediamo: il gesto di Giuditta ha una sua magnificenza, è un gesto ampio, regale quasi come quando Artemisia si dipinse “In veste di pittura”. In questo ritratto il braccio è alzato verso la tela in senso orizzontale. Il pennello tra le mani è stretto con forza e insieme leggerezza. Lei è situata a destra del quadro ma il corpo partecipa intensamente all’azione. C’è concentrazione da parte dell’artista, c’è slancio, c’è anelito, c’è amore per la pittura e c’è soprattutto il piacere, misto certamente alla fatica, che esso le procura. Ma questo piacere non nasce per caso, è frutto di attenzione e di riflessione, è gioia e sofferenza, è furore e pazienza.

Nel quadro dedicato all’eroina biblica, il corpo di Oloferne è riverso completamente sul letto. Sopra di lui, una Giuditta vestita di seta sgargiante, gli affonda con voluttà la spada nella gola. L’assassina Giuditta è la vendetta di Artemisia? Una domanda troppo facile per un’esistenza così fiera e complessa come quella della pittrice sempre alle prese con la difesa della propria professione e della propria dignità di donna.

“Il nome di donna fa stare in dubbio, ma voi troverete l’animo di un Cesare nell’animo di una donna” sosteneva Artemisia, con giusta baldanza, scrivendo ad un suo committente.

Il sangue cola sul bianco del letto e il bianco del lenzuolo, dalla parte di Lei, si fa argenteo, come accarezzato da uno spicchio di luna e pare grondare ancora ancora ancora oltre l’orlo del quadro, oltre il desiderio della vendetta…

Il rosso dell’abito della fantesca riluce e il braccio di lui con il pugno chiuso arriva al mento di lei che è piegata verso l’uomo. Nulla batte la violenza di Giuditta non solo nel maneggiare l’arma ma nel tenere fermo il suo nemico. Una mano impugna la spada, mentre l’altra afferra i capelli di lui tenendo ben ferma la testa. Ma nell’immobilizzarlo Giuditta in parte si protrae in parte si discosta quasi a non voler macchiare di sangue il suo fulgente abito di seta. Dalla scollatura il seno appare turgido, sembra aver voglia di traboccare, anzi, di più, quasi scoppiare. Lo spettatore incrocia gli occhi di lui, perché lui guarda verso di noi. Gli occhi implorano una pietà che non gli sarà concessa perché la fierezza di Giuditta – Artemisia nulla concede. Non offre alcuno spazio alla compassione e tantomeno al rimorso.

La spada affonda nel collo della vittima. Il sangue cola lungo il lenzuolo. L’occhio di chi guarda non può fare a meno di posarsi a lungo sulla scena del crimine. E’ come se non potesse distogliere lo sguardo da quanto sta avvenendo.

E se da una parte tutto appare come un incubo imprevedibile, inafferrabile, enigmatico, dall’altra tutto appare verosimilmente vero.