Quando Harriet si mise allo scrittoio ebbe paura. Non aveva mai affrontato una narrazione di largo respiro. La discussione pro e contro la schiavitù dei neri agitava tutto il Paese con punte di drammatica violenza. “E’ venuto il momento in cui chiunque abbia una parola da dire in difesa della libertà e dell’umanità ha il dovere di parlare” si disse.

Harriet Beecher Stowe è l’autrice di uno dei libri più famosi del mondo: “La capanna dello zio Tom”, pubblicato nel 1852. Il successo del libro fu clamoroso e fulmineo. La prima edizione fu esaurita in due giorni e in un anno ne furono vendute più di 300.000 copie. Alla storia dello zio Tom si ispirarono sia canzoni popolari e perfino un gioco di carte. A contribuire al successo furono le molte letture pubbliche e soprattutto il diffondersi della storia da lei narrata nelle scuole di tutto il mondo.

Harriet era moglie di un professore Ordinario di Sacra Scrittura all’Università, un luminare della teologia. Ebbero sei figli. La sua vita era quella comune a quasi tutte le donne del suo tempo. Amava molto suo marito tanto da scrivergli, dopo le nozze: “Se non fossi già mio marito credo che mi innamorerei di te”.

Veniva da una famiglia puritana del Connecticut i cui avi erano sbarcati in America nel 1638. Era la settima dei 12 figli del reverendo Lymann Beecher. Da ragazza aveva seguito il padre a Cincinnati, città degli Stati che doveva la sua prosperità al lavoro dei neri nelle piantagioni. Intorno a lei molti manifesti promettevano premi a chi riconsegnava ai proprietari gli schiavi che erano fuggiti e tentavano di raggiungere il Canada dove le leggi inglesi permettevano loro di essere automaticamente liberi. Uno dei suoi fratelli era un predicatore famoso che sosteneva la causa contro le vendite degli schiavi come avveniva ogni giorno nei mercati di carne umana dell’America del Sud e fu proprio lui ad esortare la sorella a scrivere su questo argomento. Lei aveva già esordito con racconti e articoli per riviste religiose, ma la posta in gioco qui era molto alta. “Come posso fare ad affrontare un tema tanto complesso?”

La prima puntata de “La capanna dello zio Tom” apparve sul “National Era” il 2 giugno 1851 con il titolo: “La capanna dello zio Tom, ovvero la vita tra i diseredati”, la seconda fu pubblicata dopo una settimana. Lei capì che non sarebbero bastate per un argomento così importante nemmeno dieci puntate, ma centinaia di articoli per raccontare sulla tavola della sua cucina la saga della schiavitù. Un pubblico sempre più vasto e appassionato cominciò a seguirla. Ci vollero 40 puntate per giungere alla fine del racconto.

Qualcuno commentò che il suo libro era il più grande di tutti i tempi dopo la Bibbia. Se i lettori divoravano le pagine, la prima a stupirsi era l’autrice. Lei era consapevole di essere una massaia e non una letterata. In più coltivava una specie di rimorso perché in realtà non aveva mai visto il profondo Sud dove era ambientato il suo racconto. Tutto questo costituì un’arma nelle mani dei suoi avversari che ebbero gioco facile nell’accusare l’autrice di presunzione e di menzogna. Insomma, le piantagioni non le aveva mai viste. I librai avevano paura ad esporre il libro in vetrina ma tantissimi editori, poiché lei non aveva protetto il suo copyright, pubblicarono il romanzo contemporaneamente. A Parigi tre giornali lo ristampavano a puntate in tre versioni diverse. Musset, George Sand e Heinrich Heine gridavano al capolavoro.

La regina Vittoria ne era entusiasta ma non voleva compromettere le relazioni con gli Stati Uniti e così la regina evitò di incontrarla ufficialmente e fu organizzato un incontro “casuale” in una stazione di Londra mentre i reali partivano per la Scozia. Ma gli ammiratori le tributarono ovunque sia in Inghilterra, sia in Francia, sia in Italia accoglienze trionfali. Erano in molti a sostenere che senza “La capanna dello zio Tom” non ci sarebbe stata l’elezione di Lincoln il quale disse della scrittrice: “E’ una piccola donna ma ha dato inizio a una grande guerra”.

Il “miracolo” dello zio Tom è di quelli che rimangono non solo nella storia di un autore ma di tutto un popolo. Il suo libro continua a vivere perennemente in infinite versioni teatrali, liriche e le traduzioni sono apparse in una infinità di lingue compreso l’armeno e perfino l’indù e la voce di Harriet continua a parlare ancora adesso ai lettori di oggi.

“Preferirei essere a casa a badare ai fatti miei e sono stanco della vita che mi tocca condurre. Mia moglie è perennemente assediata dai più umili contadini ai più grandi aristocratici perciò non abbiamo un momento di quiete” scriveva il marito ad un amico nel 1853. E aggiungeva: “I giornali francesi ricevuti stamattina dicono che le accoglienze di Parigi saranno superiori a quelle di Londra: addirittura trionfali. Cosa fare?“ concludeva preoccupato anche a seguito dello scandalo che, proprio in Inghilterra, si levò intorno all’abito da lei ordinato ad una nota sarta di Londra.

Il “Times” si scagliò contro Harriet colpevole di non essere a conoscenza dei metodi “da negrieri” applicati in quella casa di mode suggerendole di informarsi sulle condizioni di lavoro delle lavoranti: “16 ore al giorno e stipendi da fame, tutta la sua pietà è per gli schiavi neri e non ne rimane per le schiave bianche?”

La povera Harriet replicò che aveva creduto che la distinta signora andata a prenderle le misure avrebbe eseguito lei stessa l’abito, come avveniva nella sua cittadina della provincia americana, dove la sarta era ricevuta alla pari e le prove davano occasione a una bella chiacchierata fra amiche. Il “Times” la perdonò ma meno generosa fu la famosa poetessa inglese Elizabeth Barrett Browning che Harriet incontrò a Firenze. Condiscendente lodò il suo inglese “privo di stridenti americanismi” e perfino i suoi “abbondanti ondosi capelli”, ma quanto alle qualità letterarie… “una fortunata e benintenzionata analfabeta” commentò. Ma anche in questo caso tutto finì bene. Davanti a un tè ma servito su un tavolino a tre gambe scoprirono, infatti, di avere in comune la passione per lo spiritismo!