Da qualche anno il gruppo a cui appartengo, Donne degli Horti, si incontra con le amiche del Gruppo7-Donne per la pace e con quante siano interessate, per organizzare incontri allargati e discutere su temi che ci stanno a cuore. Donne degli Horti, abitiamo in campagna e amiamo molto praticare il giardino, la terra, non tanto come svago o come hobby, ma come strategia di riflessione, costruzione di un luogo di incontro, apertura alla cultura/coltura e alle dinamiche che la attraversano. Le donne del Gruppo7 di Mantova città hanno una storia diversa, che parte dagli anni settanta e registra tante iniziative, tante ‘pratiche’ importanti per la città e per le donne che la abitano. Da un po’, dicevo, lavoriamo insieme e mettiamo a confronto le nostre diverse formazioni in uno scambio che ci sembra proficuo. Ultima in ordine di tempo l’iniziativa Fare pace, una giornata di scambio alla quale abbiamo invitato donne di tutte le realtà che conosciamo, appartenenti a gruppi che regolarmente si incontrano con progetti precisi, ma anche donne semplicemente interessate alle proposte di riflessione. Ci siamo ritrovate, il 9 maggio scorso, in più di sessanta, nell’accogliente spazio Sant’Agnese di Mantova.[incontro “Fare Pace”, organizzato da Donne degli Horti e dal Gruppo7-Donne per la pace]
L’idea era nata dopo aver accolto l’appello di Floriana Lipparini, reperito in internet nell’agosto 2014, che comincia così:

Ancora la Palestina, ancora l’Iraq, ancora l’Africa… ancora l’immane orrore e l’immane stupidità delle armi e delle guerre. Contro le popolazioni, contro le donne, contro i bambini. L’umanità contro se stessa. Questo è il frutto del millenario governo patriarcale del mondo che mai si è interrotto, in forme diverse nei diversi luoghi ma sostanzialmente sempre uguale. Se ancora è possibile coltivare speranze, quindi, lo sguardo deve cambiare e dirigersi altrove. E un altrove dal mio punto di vista esiste. Sono le strade percorse da tante donne nei luoghi difficili, incrociandosi o camminando insieme. Sono le mille assemblee durate ore e ore alla ricerca di nuovi paradigmi e nuove parole. Sono le relazioni che cambiano la vita e cambiano a poco a poco il mondo.

Da questo spunto abbiamo cominciato a riflettere e a cercare modelli e pratiche che potessero dare senso alle parole. Guerre non solo con armi in pugno; anche interiori, economiche, religiose, identitarie… Abbiamo chiesto ad altre donne di portare contributi, esperienze, di mostrare che esistono pratiche per stare nei conflitti senza farsi del male reciprocamente, né male fisico, né umiliazioni, offese o sopraffazioni.

Sabato abbiamo scelto di lasciare che ognuna potesse intervenire liberamente e moltissimi sono stati i contributi. Sono affiorate le nostre differenze, le nostre storie diverse, i nostri svariati percorsi e Floriana Lipparini, della Casa delle donne di Milano, che abbiamo chiamato a raccogliere le istanze di questo momento, ci ha portato considerazioni ed esperienze preziose.

Per ora il lavoro è solo all’inizio, anzi in fase preliminare; ma le molte possibilità che si sono aperte consentono di pensare a reperire esperienze in modo più saldo, più finalizzato ad una trasformazione del nostro agire e soprattutto alla consapevolezza che esiste una modalità femminile, da perseguire ed accentuare, di affrontare i conflitti.

Come è possibile stare ferme dentro un numero enorme di guerre, senza parlare e senza fare? Dall’agosto scorso, quando Floriana Lipparini ci ha spronate a riflettere, mille altre storie si sono intrecciate nelle nostre vite e nel mondo.

Tutto capita intorno a noi, tutto ci viene consegnato dai media già cucinato e pronto, prima per la sorpresa e poi per il dimenticatoio. Israele e Palestina, Nigeria, Siria, Medio Oriente e Nord Africa, Libia e gli imbarchi, isis e boko haram, clandestini e rifugiati, conflitti vecchi e nuovi su tutta la terra e anche sotto casa, per l’expo per esempio.

Non credo all’efficacia delle manifestazioni, perché mi pare appartengano a un altro tempo: quello della mia giovinezza, quando erano un’invenzione e avevano la forza delle domande originarie, a cui nessuno aveva ancora dato risposte, un tempo storico delle “necessità”, dei diritti civili, delle proteste cariche di motivazioni e ragioni. Un tempo “là” che oggi, nel tempo dei diritti conquistati e riperduti, per me non torna, neppure nei cortei. Insomma non mi ci vedo e non li vedo fruttuosi.

Mi interessa invece il reperimento di forme di pace attuate da donne. Di tutto il lavoro fatto per esempio sulla dea madre da Maria Gimbutas e da altre in archeologia (ne parla anche F. Lipparini in Per altre vie) e da Francesca Rosati Freeman per società attuali, traggo una riflessione che, se anche non è del tutto provata scientificamente e storicamente, è un perno su cui far girare il pensiero: nelle società matriarcali non vi è traccia dell’uso delle armi. Non so fino a che punto valga il richiamo, soprattutto in questo periodo in cui, in occasione del settantesimo della Liberazione, siamo state indotte a riflettere su esperienze diverse (non ultima la figura di Leletta che esce dal libro di G. De Luna, La Resistenza perfetta), ma è certo che vi è una forte (sfruttabile) carica simbolica in questa figura del femminile disarmato.

Quello che adesso preme è infatti capire se vi siano delle possibilità per noi donne di mostrare una diversa maniera di stare nei conflitti, di gestirli, di superarli. Ho usato il termine “mostrare” perché il vecchio motivo della visibilità non mi è mai piaciuto. Ho pensato sempre che proprio l’invisibile è la nostra forza e che, se si esce allo scoperto, lo si deve fare per noi, per le nostre figlie, per tutte le donne. Non essere “visibili” al mondo, che è ancora dei maschi (come dimostrano appunto le guerre) o di qualche donna di potere, le “uome” come le chiama qualcuna di noi, ma mostrare con i gesti, con il fare, a noi stesse, che possiamo trovare strategie non bellicose. Viene a questo proposito l’ultimo articolo inviato da F. Lipparini, Le vite contano, non i confini, che risponde puntualmente alla domanda sul senso di questo convegno: quale senso mentre annegano centinaia e centinaia di persone nel Mediterraneo? Può avere il senso di portarci lì, davanti al mare, coi nostri corpi, a chiedere che siano tutti salvi.