Nell’inverno del 2015, al California Institute of Integral Studies, università privata di San Francisco (Usa) si tennero tre incontri “sul significato del corpo e le politiche del corpo all’interno del movimento femminista degli anni Settanta” e sul lavoro, d’ambito femminista e d’impostazione marxista, di Silvia Federici, sociologa, filosofa, docente, attivista e saggista italiana naturalizzata statunitense, con un lungo vissuto in Nigeria, oggi negli Usa.

Nota autrice di bestseller, quali Calibano e la strega (2004) e Il punto zero della rivoluzione (2012), Silvia Federici firma con Oltre la periferia della pelle (D Edizioni, febbraio ’23), un’opera che recupera quel dibattito americano e aggiunge ciò che l’ha accompagnato e seguito nel dibattito dentro e fuori l’Università: la messa al vaglio dell’attualità di linguaggi e pensieri, metodologie e strategie sulla messa al centro del “corpo delle donne” nelle sfere movimentiste e istituzionali, delle politiche femministe, trans, antirazziste, ecologiste e, all’opposto, di quelle conservatrici, sessiste, omofobe, razziste, anti ecologiste.

Non a caso, il volume esce nella collana Nextopie che Emanuele Pila, suo curatore, definisce “…un ossario di corpi in rivolta, sabotaggio organizzato del nuovo millennio, raccolta di istruzioni per scioperi e boicottaggi ai danni del capitalismo e del patriarcato.”

Nell’introduzione, l’Autrice evidenzia quattro “domande essenziali”:

1) mantenere “la categoria donne nelle politiche femministe tenendo in considerazione la diversità di vissuto ed esperienze” o disfarsene come suggeriscono Butler e altri post strutturalisti (p. 9);

2) rifiutare “qualsiasi identità politica in quanto inevitabilmente fittizia” od optare “per due soli gruppi in opposizione tra loro” (idem)

3) valutare positivamente o negativamente le “nuove tecnologie di riproduzione” che permettendo il cambiamento dei connotati permettono di “ricreare il nostro corpo in modo più similare a come li desideriamo” (idem)

4) valutare se queste tecnologie “aumentano il controllo che abbiamo sul nostro corpo” o ci consegnano, come “oggetto di sperimentazione e di profitto” ai professionisti del settore medico e al mercato capitalista;

L’Autrice dichiara il rifiuto delle teorie performative che hanno criticato “…il movimento delle donne degli anni Settanta per una presunta identità politica invece che per le strategie che ha portato avanti” (p. 11) e anche di quelle post-strutturaliste “…postulanti l’assunto che i corpi e i generi siano il prodotto di pratiche discorsive e performative, sviluppate nei primi anni Novanta (…) molto allettanti e che continuano ad avere successo” (idem); sottolinea che “…se il termine donne è stato abbandonato per rappresentare una categoria analitica/politica, allora anche il termine femminismo dovrebbe scomparire, dato che è difficile immaginare un movimento di opposizione emergere laddove manca un’esperienza comune di ingiustizia e abuso” (idem)

Federici guarda alla folla di donne che, nelle strade di Buones Aires e di tutta l’Argentina, “…nonostante diversità e i disaccordi”, hanno lottato e lottano “…contro la violenza di genere, l’indebitamento femminile e per il diritto di aborto”. Ribadisce come solo la presa di parola collettiva sia intervenuta sui piani concreti e simbolici, trasformando “…quello che significa essere una donna; (…) che ne sarebbe di queste lotte senza il riconoscimento delle donne come soggetto politico, come identità ben definita ma al contempo costantemente ridisegnata per creare la visione del mondo cui aspiriamo?” (p. 12)

Le quattro parti/capitoli del testo, comprendono dieci “lezioni” ciascuna dedicata a scavare in profondità argomenti ovunque pressanti (es. parte I – Il corpo, il capitalismo e la riproduzione della forza lavoro; le politiche del corpo nel contesto della rivolta femminista; il corpo nell’odierna crisi della riproduzione; parte II – Sul corpo, il genere e la performatività; ricreare il corpo, ricreare il mondo?; la maternità surrogata: donare la vita o maternità negata?)

Nel sottolineare che “il corpo”, esperienza sensibile, individuale, al centro di pratiche sociali trasformative, sia diventato “…nello stesso tempo significante per la crisi riproduttiva generata dalla svolta neoliberista nello sviluppo capitalista e per l’impennata internazionale della repressione istituzionale e della violenza pubblica”, l’Autrice si/ci domanda: “… inteso e ridotto a corpo-macchina-lavoro nello sfruttamento e nel pensiero capitalismo”, può rimanere “…una categoria di azione sociale/politica? Quali sono i processi, istituzionali o antisistemici, da cui è costituito? Come smantellare gli strumenti con cui i nostri corpi sono stati “chiusi” e rivendicare collettivamente la nostra capacità di governarli? (p. 132-156).

L’argomento “lavoro” è ripreso nella Terza Parte, dedicata all’Origine e sviluppo del lavoro sessuale negli Stati Uniti e in Inghilterra (p. 132-156) e ai Mormoni nello spazio rivisitato.

Ampia e intrigante la decima lezione, Elogio al corpo danzante, ma è nella postfazione Sulla militanza della gioia che l’Autrice si dichiara, quasi in un manifesto politico:

“…il principio della militanza gioiosa è che o le politiche sono liberatorie, o cambiano la nostra vita in modo positivo che ci faccia crescere e ci dia gioia, o hanno qualcosa che non va. La politica triste nasce spesso da un esagerato senso di ciò che possiamo fare da noi, individualmente, il che porta all’abitudine di sovraccaricarci…” (p. 216)

Citando la metamorfosi di Nietzsche, in Così parlò Zaratustra, prende il cammello, simbolo di un animale da soma, a “…prototipo dei militanti sempre carichi di lavoro perché pensano che il destino del mondo dipenda da loro.” (p. 216)

Preferisce il termine “gioia, passione attiva” a quello, ritenuto stagnante, di felicità, ovvero “soddisfazione delle cose come stanno” (p. 220); riferendosi a Spinoza “…che parla della gioia come scaturita dalla ragione e dalla comprensione” (p. 220), propone la “gioia partecipativa” come “ …occasione di crescita ma anche di delusione e sofferenza” riferendosi specialmente alle persone che si spendono in organizzazioni e movimenti di liberazione e di promozione e difesa dei diritti, vissuti, coltivando “…l’impossibile attesa di assenze di conflitti e di svalutazioni” con conseguente “…tentazione di lasciar perdere tutto.” (p. 220)

Nella “… meschinità, la vulnerabilità eccessiva che spesso troviamo nei movimenti delle donne”, l’Autrice vede “…il frutto della distorsione della società capitalistica (…) occorre imparare riconoscerle e identificarle per non esserne distrutte (…) questo apprendimento è parte della nostra crescita politica” (p. 221)

Consigliamo la lettura di questo volume, intrigante e spinoso, che affronta con chiarezza e una nuova proprietà di linguaggio temi di valenza universale (non globale), intersecanti e interagenti la complessità dell’oggi nel territorio/umanità/pianeta.

L’Autrice, che si nutre di curiosità e di consapevolezza, chiama all’assunzione di responsabilità.

Percepire l’”Oltre la periferia della pelle” permette di valutare pienamente l’oggi, prendere posizioni, riconoscere anche rimettere al centro le relazioni interpersonali e riconoscere che “…suoni e immagini stanno prendendo il posto delle relazioni sociali, sostituendo gli esseri umani con una socialità tecnologica che può essere accesa e spenta a piacimento” (p. 198).

Info: Silvia Federici, Oltre la periferia della pelle. – Roma: D Editore, 2023.