Com’è  difficile riuscire a scrivere bene, si rammaricava Virginia: i cani abbaiano, la  gente interrompe, bisogna fare i soldi, la salute non regge…

E  nessuno ti chiede di scrivere. Nessuno ne ha bisogno. A chi interessa se io trovo o no la parola giusta?

Sogno spesso mia madre. Alle volte mi sembra di udire il fruscio  di seta dei suoi vestiti mentre cammina su e giù per le stanze…

Il  mare della Cornovaglia… i miei fratelli più grandi e quelli  più piccoli… papà nel suo studio chino sui libri… le bambinaie… i domestici… tutti disposti in cerchi e poi il battito degli orologi, le maree che si abbassano e si alzano, le  tende giallo pallido, il faro dell’isola di fronte, l’argento della passiflora…

Io guardo verso il balcone.

Il  balcone risplende e vacilla.

Lei è là. È là da sempre. È là dall’inizio.

Ha  una vestaglia bianca. Io dico qualcosa di buffo. Lei sorride. Divento di brace. Mi guarda.

Ma un istante dopo eccomi china a baciare la sua fronte fredda mentre mio padre fugge via dalla stanza gridando qualcosa che non capisco.

Vedo i piccioni librarsi e poi sostare.

Era  un azzurro mattino di primavera.

Sopra di me si apre un silenzio soffocante.

Mamma!

Mi  alzo e vado verso la finestra obbedendo a una voce che chiama dal nulla.

Dicono che quello fu il mio primo tentativo di suicidio.

Poi arrivò Stella, la mia sorellastra, a ricucire insieme i lembi strappati della famiglia.

Vigilava. Disponeva. Faceva compagnia a papà.

E di nuovo la morte. E di nuovo il silenzio. Anche Stella muore.

Siamo sole ora, io e Vanessa, in un mondo di maschi.

Indossiamo vestiti di satin e abbiamo un nastro tra i capelli.  Prepariamo il tè, leggiamo, cuciamo.

Loro studiano, vanno al lavoro, viaggiano. Hanno calzini a righe e scarpe ben lustrate.

Io inciampo nella gonna, arrossisco spesso e non so dove tenere le mani.

Loro fumano la pipa, sono contenti del loro ruolo nel mondo.

Su loro pesa lo splendore e l’orgoglio di essere uomini.

Poi  papà muore. Anche Toby muore. Vanessa sposa Clive. E io resto sola con Adrian.

Avevo quadri antichi, una pianola,  un cane e una domestica.

Mi rifugiai in un angolo del salotto e cominciai a scrivere.

Non avrei saputo far altro, del resto, neanche cucinare un uovo, neanche cucire un bottone.

Mio marito Leonard dice che ciò che scrivo è la parte migliore di me. Non l’innamoramento, non il sesso, non l’incerto desiderio di avere figli…

Che  cos’è la realtà? No, non deve essere ciò che appare. Abita  in zone più oscure, più notturne, più acquatiche. Io  voglio cogliere questo, il balenare di un attimo, il transitorio, il crepuscolare.

Bisogna procedere per gallerie.

Sprofondare nei buchi neri.

E non so se, appollaiati sull’orlo di questa caverna nera, sì non lo so, se sarà possibile tenersi in piedi.

Eppure è lì che i ricordi e le domande  della vita si aprono alle risposte.

Mia madre. È lì. La vedete?

Lei è sempre stata là, sul balcone.  E io continuo a guardarla.

La guardo nei momenti densi e pieni come acini d’uva e nei momenti  grigi, soffocati, in cui la vita si fa d’un tratto muta e nasconde il volto.

Tutte le stanze, tutta la città, tutta la notte, tutte le distese dei campi sono piene di lei… Eppure è anche altrove e da lì non smette di chiamarmi…