Articolo di Stefania Zuliani su AlfaBeta2

— Come sempre accade ai poeti e agli scrittori che frequentano, indisciplinati, lo spazio dell’arte, ricercando nel corpo dell’opera come nella vita dell’artista la possibilità di una rivelazione altrimenti inaccessibile, anche John Berger rifiuta categoricamente di essere definito critico d’arte. «Nell’ambiente in cui sono cresciuto fin da adolescente, dare del critico d’arte a qualcuno equivaleva a un insulto. Il critico d’arte era un tizio che sparava giudizi e pontificava su cose di cui sapeva poco o nulla». Nella stringata premessa con cui ha accompagnato la pubblicazione dei suoi Portraits d’artista, ora editi in Italia nella traduzione di Maria Nadotti, Berger – scrittore, giornalista, intellettuale di partigiana coerenza – precisa subito come i testi diversi che compongono questa, davvero monumentale, raccolta non siano frutto di una pratica critica di tipo professionale ma di un’indagine che contraddice ogni rigido, e per questo insoddisfacente, metodo di valutazione: «un sistema è una specie di dannazione che ci costringe ad una perpetua abiura», aveva scritto Baudelaire. Più che recensioni o cronache d’arte, quelli di Berger sono racconti che hanno l’irriverenza del gesto poetico e la crudeltà della testimonianza, sono i documenti mai ingenui di un’interrogazione che riguarda, innanzitutto, l’autore: l’autore dell’opera e, insieme, l’autore dello scritto che la riguarda.

Pur nella molteplicità delle occasioni e dei contesti da cui, nel corso di oltre mezzo secolo (dal 1952 al 2016), sono scaturiti gli ottantotto capitoli del volume, aperto dai pittori della grotta di Chauvet e chiuso da Randa Mdah, trentenne artista siriana. E nonostante la differenza di respiro che li caratterizza – si va dalla fulminea notazione al saggio passando per il dialogo «filosofico» e la scrittura epistolare – tutti i testi confluiti in Portraits sono davvero dei ritratti, delle esposizioni che mettono in luce, e quindi a rischio, un rapporto, una relazione, un avvicinamento. «Il ritratto (mi) somiglia, il ritratto (mi) richiama, il ritratto (mi) ri-guarda»: sono parole di Jean- Luc Nancy, e per quanto l’autore del Ritratto e il suo sguardo non sia fra i molti interlocutori, poeti e filosofi, che Berger di volta in volta ha coinvolto nel suo confronto con l’arte e con gli artisti – è un vero peccato che la mancanza di un indice dei nomi non consenta di ricostruire immediatamente la rete fitta degli scambi e dei rimandi che anima Ritratti – appare a mio avviso evidente che, come per Nancy, anche per lo scrittore, nato a Londra nel 1926, il ritratto produca il suo soggetto nella reciprocità, in un incontro che secondo John Berger è, prima di ogni altra cosa, un antidoto all’indifferenza.

«L’immagine ci ha pizzicati. In essa c’è una pietà che confuta l’indifferenza ed è incompatibile con qualsiasi facile speranza»: Berger si riferisce qui ad un’opera, Alienato con monomania del furto, 1820-24, dipinta da Théodore Géricault al manicomio parigino della Salpêtrière, uno dei luoghi cruciali per la nascita non solo della psichiatria ma anche del pensiero visivo della modernità. È un piccolo ritratto che ha però tutta la genialità della compassione, che si impone per la lucidità di uno sguardo rispettoso e partecipe, uno sguardo in cui Berger riconosce lo stesso amore che attraversa l’opera di Pasolini («Géricault aveva molto in comune con Pasolini»), poeta di cui cita a riprova alcuni versi: «ma voglio che diversa sia la via // del mio amore per questa realtà, / che anch’io amerei caso per caso, creatura/per creatura». Nel costante confronto con gli autori più amati, Berger, che alla pittura si era dedicato in gioventù continuando fino alla fine ad affidare al disegno il tracciato intimo dei suoi giorni di appassionato militante della giustizia, riconosce nella visione degli artisti non una verità, che per sua natura «non è soltanto più profonda, è altrove», ma la possibilità di una presenza che abbia la forza inesorabile della realtà, che sia capace di convincerci e di sottrarci da quei comodi e illusori «rifugi privati» a cui ci ha abituato la ingannevole condizione postmoderna, più e più volte oggetto della critica ostinata di Berger, che ancora nel marzo 2016 – quindi a pochi mesi dalla sua scomparsa, avvenuta a Parigi nel gennaio 2017 – dava prova del suo pubblico impegno Contro i nuovi tiranni (2013) parlando del dramma palestinese attraverso le opere di Mdah: «La patria dei palestinesi non è da nessuna parte. Questi disegni sono una mappa di quel da nessuna parte».

Fermamente convinto che «l’arte è un punto di partenza per parlare dell’enigma del senso, della ricerca del senso nella vita umana», Berger nei suoi ritratti fa reagire Kavafis con Caravaggio «pittore dei bassifondi», Brecht con Bruegel, Dostoevskij con Holbein, Yeats con Picasso, Hikmet con Muñoz. E nel cortocircuito che si genera fra segno e parola, nell’incrocio degli sguardi che crea l’immagine («Quando l’intensità dello sguardo raggiunge un certo grado, diventiamo consapevoli che un’energia altrettanto intensa viene verso di noi attraverso l’apparenza di quanto stiamo osservando»), ogni volta riconosce e indica una strategia di resistenza, un argine alle derive di un pensiero senza speranza e senza pietà. Quella che egli propone è, insomma, una possibilità di senso, un’ipotesi di realtà in grado di mettere in questione la storia e di attivare la memoria che, come aveva notato nelle pagine di About Looking (1980; a cura di Maria Nadotti, Sul guardare, il Saggiatore 2017), «implica un atto di redenzione».

Nei suoi ritratti, sempre in prima persona e però del tutto refrattari a ogni compiacimento narcisistico, la soggettività è assunta non come limite ma come condizione di autenticità, ed è per questo che Berger non esita a ricredersi, a ritornare a guardare alle stesse opere con occhi che il tempo ha reso diversi: esemplare, in questo senso, la sua duplice lettura della Crocifissione di Grünewald, prima e dopo lo spartiacque del Sessantotto: «in un periodo di aspettativa rivoluzionaria ho visto un’opera d’arte sopravvissuta per testimoniare di un’antica disperazione; in un periodo cui bisogna resistere, vedo la stessa opera aprire miracolosamente un esile varco in mezzo alla disperazione». Vincolato soltanto alla franchezza dello sguardo e del racconto, Berger avvicina gli artisti ripercorrendone la biografia, attento più a ricostruirne l’ambiente familiare che a disegnare genealogie artistiche: «ogni infanzia è un mondo che implora di essere descritto», scrive a proposito di Renoir, e anche nella pittura di Monet riconosce le tracce del bambino che guardava il mare dal porto di Le Havre. Senza mai dimenticare la concretezza dell’opera, la sua materialità e il valore specifico della tecnica, di cui da pittore conosceva bene le esigenze, Berger non cede alla pigra «abitudine» di «osservare i dipinti esclusivamente dal punto di vista della forma». Cercando in ogni artista le tracce di un’ossessione, di un necessario «soggetto nascosto ma continuo», da abile storyteller ne racconta poi gli esiti nell’opera, sapendo che, al di là di ogni invenzione e intenzione, «la storia non ammette esenzioni». Nella certezza che, alla fine, il visibile è comunque uno schermo: «dietro il pigmento della tela c’è quel che conta, e corrisponde a quel che sta dietro le palpebre degli occhi chiusi».

John Berger – Ritratti – a cura di Tom Overton, traduzione di Maria Nadotti, – il Saggiatore, 2018, 654 pp., € 45