Per le donne, la conciliazione dei tempi di lavoro e di vita privata è ancora un problema aperto. Ciò è dovuto da un lato al perpetuarsi di modalità organizzative a misura d’uomo, dall’altro a scarsa consapevolezza del forte valore politico-sociale della questione, nonostante l’imponente pubblicistica e il poderoso dibattito prodottisi su di essa.

Purtroppo, è duro a morire lo stereotipo secondo cui “maschile è bello”.

Accade, infatti che ci siano donne impegnate nei luoghi delle decisioni, e delle professioni, che tendono a omologarsi agli uomini: dal farsi nomare al maschile per il ruolo che si ricopre, forse convinte di acquistare, così, un’autorevolezza che si pensa di non poter avere declinandosi al femminile (complice l’atavica mancanza di autostima che affligge tante donne, vulnerate da secoli di stereotipi e pregiudizi interiorizzati a mo’ di cilicio); al mantenersi dentro “logiche” di organizzazione dei tempi tipicamente maschili, che fanno fare autogoal sia al mainstreaming sia all’empowerment, e dimenticano che tra gli obiettivi della Strategia nazionale di genere 2021-2026 c’è anche il dominio del tempo in ottica sociale.

Gli orari, si sa, da sempre sono calibrati sugli uomini, riflettono le loro abitudini, i loro ritmi di vita. Per oggettivi motivi storici.

Ma la vita delle donne è ben diversa da quella degli uomini: basti ricordare gli impegni di cura familiare che da sempre gravano sulle donne, detentrici del solito DNA di vestali della cura tanto caro alla tradizione.

Sono indispensabili, quindi, buone prassi, che siano inclusive, a favore di chi, oltre all’impegno lavorativo, mantiene impegni di cura familiare, per i figli o per i genitori anziani.

Su ciò, da tempo è in atto un cambiamento culturale, che però ha luogo soltanto dove c’è forte spirito critico insieme a una volontà di democrazia sostanziale che rifugge dal ricorrere a “conciliazioni individuali“ che possono concretizzare disimmetrie di trattamento che poco hanno da spartire con le politiche di pari opportunità e con il progresso sociale.

Occorre una “mentalità di sistema”.

In merito al problema, il Women7, engagement group del G7 di Tokio sull’uguaglianza di genere, ha chiesto a tutti i governi aderenti non soltanto la ratifica della convenzione Cedaw per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione antifemminile, ma anche un impegno concreto nella tutela dei percorsi di cura a carico delle donne. Del resto, come scrive Marcella Corsi su InGenere, “l‘assistenza è la spina dorsale della società. Prendersi cura degli altri nelle diverse fasi della nostra vita, è una delle esperienze emotive centrali della nostra esistenza.”

A proposito del futuro demografico del nostro paese, non bisogna dimenticare, infatti, che secondo l’Istat nel 2030 ci saranno 5 milioni di persone anziane non autosufficienti. Di questo, e delle relative azioni di welfare, dovrà tenere conto la politica, anche nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, che, peraltro, ha tra le sue priorità trasversali la Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2016, ispirata alla Gender Equality Strategy 2020-2025. Il 21 marzo 2023 il Parlamento italiano ha approvato la Legge Delega in materia di politiche in favore delle persone anziane, contenente la riforma della non autosufficienza, cui segue la stesura dei decreti attuativi.

Rimane punto debole il fatto che, soprattutto nel Mezzogiorno, l’assistenza domiciliare a carattere sociale sia a carico dei Comuni, la cui fragile situazione finanziaria è ben nota.

Per la European Women Lobby è forte il bisogno di misure efficaci, e di piani d’azione incisivi: le politiche di assistenza e di conciliazione dei tempi sono condizioni imprescindibili per il raggiungimento di una democrazia paritaria, concreta e non soltanto declamata.

Afferma l’economista Valeria Maione: le molte donne che oggi sono arrivate ai vertici delle organizzazioni, delle istituzioni, della politica non dovrebbero fare le “api regine” ma dovrebbero prodigarsi a favorire concretamente la presenza di altre donne accanto a loro, per migliorare tutte insieme. La cura e i suoi valori sono elementi fondanti dell’esistenza umana e l’etica della cura universale deve farsi centro nella discussione pubblica come motore di un cambiamento strutturale”.

Il lavoro di cura delle donne è di tale importanza che anni fa, dalle pagine de Il Sole 24 Ore, l’economista Alberto Alesina e il giuslavorista Pietro Ichino avevano lanciato una proposta in funzione di una parziale detassazione del lavoro delle donne gravate da impegni di cura familiare, ipotizzando una riduzione delle aliquote sui loro redditi da lavoro. Questo, avrebbe significato emanciparsi dalla “cecità” stigmatizzata da quel Gender Budget Analysis a cui per anni il Consiglio d’Europa ha sollecitato gli Stati Membri.

Ma nulla di concreto è seguito alla proposta.

Valeria Maione riprende la “Alesina-Ichino”, convinta della ”necessità di riconoscere il valore del lavoro femminile della cura che le donne svolgono per tradizione, circostanza da cui, tra l’altro, derivano indubbi risparmi per un sistema che altrimenti dovrebbe provvedere all’accudimento di bambini e anziani. E aggiunge che “si può riportare il sistema economico italiano sulla giusta direzione, purché si operi con un piano strategico ben chiaro e definito, inclusivo e attento ai bisogni individuali e collettivi, privo di quegli stereotipi di genere ancora troppo diffusi.”

Sulla questione non dobbiamo dimenticare quanto scrive Ina Praetorius, economista non allineata al pensiero neoliberista d’impronta neoclassica, ovvero che “l’economia è cura”, e quindi è giustizia sociale, welfare universale, rispetto di tutti gli essere viventi. La Praetorius intende cura come “care”, parola inglese che significa cura, ma anche attenzione, premura, presa di distanza dalla visione patriarcale del mondo. Dunque, includere il lavoro di cura non significa necessariamente monetizzarlo, perché, nell’orizzonte valoriale della Praetorius, il denaro non è l’unità di misura di tutto.

Che ci sia un bisogno umano di preservare la qualità della vita, riscoprendo l’importanza della relazione con l’altro, è sostenuto vigorosamente anche da un’altra economista, Margrit Kennedy.

Si tratta di battaglie di civiltà: nel caos generale cui assistiamo, la cura è indispensabile, sia nell’economia sia nell’intero modo di esistere. E’ una battaglia che si collega anche alle Banche del Tempo, e che dovrebbe essere mandata avanti soprattutto dalle donne, che dovrebbero avere intelligenza e sensibilità adeguate allo scopo. Strada ancora lunghissima, ma necessaria, in un mondo che ormai da tempo funziona male

Ovviamente, tutto ciò coinvolge la politica a vari livelli. Peraltro, il Bilancio riflette l’equilibrio dei poteri all’interno di una società, e dunque non è un documento economico, tout court, bensì una vera e propria “dichiarazione politica”.