Articolo già pubblicato su UnoeTre, nella Rubrica Donne, Storie e Futuro, il 19 luglio 2021

La Storia serve, come abbiamo ricordato molte volte nelle pagine di UnoeTre, a ricordare ciò che è stato con rispetto, e per il bisogno di imparare, anche perché nulla passa mai del tutto senza lasciare un’impronta, e l’impronta segna anche noi contemporanei. E’ per questo motivo che parlo in quest’articolo di un’esperienza femminile degli anni Settanta, una cooperativa autogestita nata ad Allumiere, chiamata La lumiera. L’antefatto è breve: durante la presentazione del libro Le donne gli eroi Risorgimento alla Casa Internazionale delle Donne a Roma, per il quale ho curato la Prefazione, mi è stato dato dall’Autrice Lucia Visca, fondatrice anche della casa editrice All Around, il libro dal titolo Le ragazze della cooperativa. Perché mi è sembrato importante scrivere qui di una cooperativa che è stata ricordata in una mostra fotografica nel 2015 nel Cortile della scuola elementare di Allumiere? Alla fine del libro una foto ritrae le ex ragazze de La Lumiera cinquant’anni dopo, ma il significato di quell’esperienza non è solo romantico, tanto meno il racconto di un’avventura durata vent’anni e poi finita; quella coraggiosa esperienza ci dice che il lavoro non è solo globalizzato e delocalizzato, alienato e part-time, e che non è sempre stato così. Oggi finalmente che il lavoro ha smesso di essere solo postmoderno, smaterializzato, incorporeo, ma ha riassunto di nuovo i tratti che gli spettano, in relazione alla dignità della persona, alla professionalità, allo sfruttamento, al profitto di un capitalismo che non conoscerà limiti se i lavoratori e le lavoratrici non li tracceranno, questa straordinaria esperienza insegna molto. Personalmente, mi sono ritrovata in molte delle descrizioni dei lavori di sartoria, avendo avuto una zia e una madre sarta; quest’ultima aveva lasciato gli studi ancora prima delle ragazze che nel libro prendono parola, a dieci anni, per andare a imparare il famigerato lavoro di sarta, o peggio ancora nel linguaggio corrente sartina.

Come dice il libro in apertura, le brave ragazze di Allumiere una cinquantina di anni fa hanno capito di non avere altra strada, avendo abbandonato presto gli studi, per decisione della famiglia, o per disinteresse: quindi, o avere solo la prospettiva di una famiglia, figli, un lavoro da sartine sognando l’apertura di un negozietto di merceria, o lottare per un futuro diverso; in qualunque modo fosse andata, sarebbero state loro a scegliere per sé stesse. Allumiere, sui monti della Tolfa, dista circa novanta chilometri da Roma, un’ora di macchina oggi, circa quattro ore cinquant’anni fa; feudo della Democrazia Cristiana, poi nel 1975 conquistata dalla sinistra; un luogo scelto come buen retiro da alcuni dei radiati dal Pci, provenienti da Il Manifesto, anno 1969. Fra loro, una coppia: Giorgio Pirandello, nipote dello scrittore drammaturgo e Adriana Ferri, figlia di Ida Ferri, celebre per l’invenzione di una scuola di taglio e cucito, una scuola mitica allora in via Volturno a Roma, nei pressi della stazione Termini, ma anche dirigente dell’Unione Donne Italiane. Adriana esperta di taglio e cucito, lavorava con la madre come figurinista, conosceva a Roma non solo il mercato dei grandi stilisti, Valentino, Gattinoni, Sorelle Fontana, ma anche quello delle tante boutiques e atelier. Con Giorgio, ispirandosi ai principi marxisti, crearono con 80 operaie, una cooperativa di lavoro basata su principi egualitari; nata agli inizi degli anni Settanta, caduta e poi risorta come Nuova Lumiera, terminata all’alba del nuovo millennio, fu travolta come racconta il libro prima dalla Milano da bere, che spostò il baricentro della moda dal Colosseo alla Madonnina, poi dalle delocalizzazioni.

Nel libro sono le ragazze stesse a raccontare le prime riunioni organizzate da Adriana Ferri, dove andavano con i genitori perché tutte minorenni, alcune avevano appena 16 anni, la più grande 19, ma per le leggi del tempo non ancora maggiorenne. Il lavoro lo portava Adriana da Roma, pacchi di vestiti già tagliati, solo da cucire, ma per prima cosa le ragazze seguirono un corso di taglio e cucito: Adriana insegnò come fare la costruzione del modello dal figurino. L’attività iniziò con vecchie macchine da cucire con i motorini riparati, nella sede di via Roma dove ora c’è una pizzeria. Era nato il primo laboratorio a façon, cioè personalizzato del Lazio, completamente autogestito da donne, una rivoluzione femminile ricorda una di loro, ‘di cui neanche ci rendevamo conto’. Ditte che andavano e venivano portavano i figurini delle collezioni, e sapevano così in anteprima come si sarebbero vestite le signore nella stagione successiva. Mentre le sartine che lavoravano individualmente completavano un capo a settimana, la cooperativa arrivava a consegnarne anche cinquanta al giorno. Le banche le prendevano sul serio, quando chiedevano fidi. “Nel 1969 eravamo pronte a conquistare il mondo, nel 1970 ci sembrò di averlo afferrato quando andammo dal notaio a fondare La Lumiera, in 12: Adriana Ferri, Rita Moraldi, Cesarina Lucidi, Mirella Mignanti, Doriana Ciambella, Liana Ciambella, Antonietta Galimberti, Graziella Vela, Fabiola Appetecchi, Anna Maffei, Rosalba Pinardi, Maria Paolucci […]; noi lo abbiamo capito che cosa è stata la cooperativa. E’ stata una storia sociale. E’ stata la vicenda di una generazione. Di più generazioni. C’era un’organizzazione, c’erano i problemi economici e le fatture da pagare. Tutto però in un secondo piano rispetto a quel che è rimasto nello spirito del paese stesso. Ancora oggi ne vediamo le ricadute. Una certa propensione all’indipendenza soprattutto fra le donne”.

Sarebbe altamente pedagogico se parlando di lavoro alle adolescenti, si mettessero al corrente dei racconti di vita delle sarte de La Lumiera. Vittoria Pinardi racconta: Come si viveva? Beh, vi racconto questo. Quando è nato il mio primogenito mia madre lo portava tre volte al giorno in cooperativa per l’allattamento. Lavorare nella cooperativa era come avere una seconda famiglia, avere tante sorelle con cui confidarsi, e confrontarsi, il tutto reso più confortante da una piccola paga mensile che, pur non cambiandoci la vita, ci dava la possibilità di tirare avanti e sperare in un futuro migliore […]; quando ho cominciato, la politica non m’interessava, il femminismo non lo conoscevo. Piano piano mi sono avvicinata, ho acquistato consapevolezza. Ricordo di aver partecipato anche a qualche dimostrazione, si chiamavano così”.

Luigina Profumo ricorda che a 18 anni era già di sinistra; la cooperativa rappresentò finalmente il lavoro e l’idea piacque anche ai genitori, meno al paese, ma a lei non fregava niente. ‘Vivevo, vivevamo un periodo fantastico’. Anna Rita Sgamma nel 1974 aveva 17 anni, e iniziò a lavorare part time con la vendita diretta dei capi al pubblico nel pomeriggio. Una volta presa la maturità, assunzione a tempo pieno, con il sogno di diventare indipendente economicamente e andare a vivere per conto proprio. L’idea portante era quella di dimostrare che anche persone semplici senza grossi mezzi finanziari e cultura industriale potevano con intelligenza e impegno far funzionare un’azienda e crearsi un lavoro con le proprie mani. La scommessa era quella di partecipare alla costruzione di una cultura operaia, appropriarsi dei mezzi di produzione, come si diceva allora, dimostrare l’inessenzialità del padrone e l’ingiustizia del profitto. Il fatto poi che fossero solo donne quelle che si cimentavano in quella sfida faceva di quella scelta una ribellione sul nostro territorio e la rendeva irrinunciabile.