Per la seconda volta (la prima, il 22 e 23 ottobre dello scorso anno) Alessandra Bocchetti e Franca Chiaromonte hanno chiamato a un incontro, “di sole donne come una volta.” L’incontro si è svolto a Roma, alla Libreria Spazio Sette, sabato 20 e domenica 21 maggio, incontro autofinanziato dalle partecipanti arrivate a Roma da tutta Italia (molte, ma meno delle prenotate, a causa dei disagi creati dall’alluvione in Romagna). L’invito, Alessandra e Franca l’hanno lanciato in rete, non una rete virtuale, ma una rete reale di donne interessate a stare “Insieme a maggio” (questo il titolo dell’incontro). “Una volta” è il tempo del Centro Virginia Woolf: “Dalle grandi pensatrici, le artiste, le grandi scrittrici, che incontravamo e studiavamo, abbiamo imparato noi stesse, loro sono state le nostre mediatrici.”

Questa volta le mediatrici sono state tre filosofe “senza metafisica”: Rachel Bespaloff, Sarah Kofman e Barbara Cassin, “tre pensatrici – dice sempre l’invito – che non hanno mai dimenticato di essere donne, tutte e tre non hanno mai creduto nell’Io neutro universale. I limiti del loro corpo e dei loro affetti le hanno guidate nei loro giudizi e passioni.”

Il percorso delle tre filosofe è stato attraversato da Nadia Fusini, Stefania Tarantino e Maite Larrauri, ma anche negli interventi seguiti alle relazioni: tutte le contraddizioni dell’oggi vi hanno fatto irruzione, a partire da quella più attuale e lacerante, quella tra guerra e pace.

Della filosofa francese Rachel Bespaloff – ebrea, nata in Bulgaria nel 1895, vissuta in Francia e morta suicida nel 1949, negli Stati Uniti, dove si era rifugiata per sfuggire all’occupazione nazista della Francia – ha parlato Nadia Fusini, studiosa di letteratura inglese, che ha curato e tradotto le opere di Virginia Woolf in Italia  ed è autrice di un libro, Hannah e le altre, dedicato a tre filosofe – Simone Weil, Rachel Bespaloff, Hannah Arendt – che al mondo tragico e disumano del loro tempo hanno volto lo sguardo “altro” della differenza.

Declinando efficacemente il nome Rachel con la pronuncia ebraica, poi francese, poi inglese, Fusini ha rappresentato, attraverso la successione degli eventi della vita di Bespaloff, il suo sradicamento, un sentimento che la accompagnerà sempre, insieme alla sensazione di essere “marchiata” come racconterà la figlia Miette.

“C’è sempre molta vita nel pensiero delle donne” e nella vita/biografia di Rachel Bespaloff ci sono sorprendenti “coincidenze”, vere e proprie relazioni esistenziali di vita e destino. Rachel, racconta Fusini, legge l’Iliade nello stesso tempo in cui Simone Weil ne scrive, ma del poema di Omero la loro lettura è molto diversa: per Simone Weil è il “poema della forza”, per Rachel Bespaloff il cuore dell’Iliade non è la forza, ma il dolore, in particolare quello di Ettore, l’eroe costretto a combattere per resistere. Nel 1938, Rachel va a curare il proprio “male di vivere” nella stessa clinica svizzera nella quale era stata Simone. Nel 1939, entrambe, a Ginevra, vedono i quadri di Goya, e ne sono profondamente colpite perché rappresentano la stessa violenza del loro presente segnato dalla guerra, dal totalitarismo, dalla barbarie che sta distruggendo l’Europa. Altra “coincidenza”: come Emily Dickinson, che non è sua contemporanea, Rachel Bespaloff, che era una musicista e insegnante di euritmica, scrive “in segreto”. Ama e studia la filosofia, ma solo nel 1933 pubblica il suo primo saggio, su Heidegger. In America, finisce per insegnare nello stesso college dove Emily Dickinson era stata 100 anni prima. Con Emily, infine, condivide la passione per le Scritture, in particolare per i Profeti. Come Simone Weil, Rachel è alla ricerca di Dio, ma “tra coloro che falliscono” dice di se stessa. Simone Weil, dice Rachel, “ama il Dio dell’assoluta impotenza” e non il mondo, che invece Rachel ama. “Non cercate altre ragioni per il mio suicidio che la mia estrema stanchezza” scrive prima di suicidarsi con il gas. È la stanchezza (era molto provata dalle vicende personali in quegli anni), non il disamore del mondo che mette fine alla vita di una filosofa non accademica, che era stata in rapporto con i più importanti intellettuali del suo tempo, tra i quali il filosofo Jean Wahl che di lei parla come di “una intelligenza che è vita”.

Una interlocuzione aspra e polemica, ironica e dissacrante, è quella che, invece, intrattiene con i filosofi – non solo suoi contemporanei – Sarah Kofman (1934 – 1994). Ne ha parlato Stefania Tarantino (Università di Salerno), sottolineando che anche Kofman è una filosofa francese non accademica: ottiene una cattedra alla Sorbonne solo poco prima di suicidarsi, a 60 anni. C’è una differenza abissale, come ha detto Françoise Duroux (altra filosofa di cui si occupa Tarantino) tra il modo in cui pensa (fa filosofia) una donna e il modo in cui lo fa un uomo (filosofo). Le filosofe non separano pensiero e vita e riescono così a leggere differentemente il “testo-mondo”, anche per noi.

Sarah Kofman, che non si definisce femminista, utilizza gli strumenti analitici della psicoanalisi freudiana per decostruire il pensiero dei filosofi, ne individua i moventi pulsionali più profondi e i meccanismi con i quali i filosofi li nascondono, e la sistematica esclusione della differenza sessuale. Questo approccio ha di fatto riscritto la storia della filosofia, dice Stefania Tarantino. Non rispettando regole e ambiti accademici, Kofman, con un gesto “di lesa filosofia”, riporta a galla lo scarto, scopre la natura malata della metafisica. La malattia è quella della disconnessione strutturale tra pensiero e vita. I filosofi, che non sono puri spiriti, ma uomini in carne ed ossa, rifiutano la confusione. È un assetto paranoico. Il pensiero che sostiene la vita è al contrario, jouissance, parola difficilmente traducibile in italiano perché contiene il significato di piacere ma anche di gioia, non separa il mondo reale e il puro mondo delle idee come fa Platone. Nella lettura che fa del mito della nascita di Eros nel Simposio platonico, ad esempio, Kofman mette in evidenza l’occultamento dell’intelligenza pratica di Metis (astuzia), madre di Poros (l’espediente), di un sapere che non coincide con la conoscenza e con la dimensione teorica ma con il saper fare “la cosa giusta al momento giusto.”

In Parole soffocate, Kofman parla della necessità di parlare della deportazione e dell’assassinio del padre in campo di concentramento. Di lui, le resta una penna, che diventa simbolicamente il legame con la storia e le indica il compito di scrivere. Insieme all’esperienza paterna vi è la sua, raccontata in Rue Ordener, rue Labat; sono i due indirizzi della bambina Sarah che la madre, per nasconderla alla furia nazista, affida a un’altra donna, non ebrea. Alla fine della guerra, la piccola Sarah si troverà contesa tra le due madri, una grande ambivalenza sentimentale ed emotiva. L’ambivalenza caratterizza la vita di Kofman, ed è per questo che per lei la parola non è mai la parola definitiva, “l’ultima parola”, ma una parola che interroga, “una parola senza potere”.

Di una filosofa francese vivente, Barbara Cassin, ha parlato Maite Larrauri. Maite Larrauri è di Valencia, ha insegnato filosofia e ha tradotto in Spagna le opere di pensatrici della differenza sessuale.

Il punto di riferimento di Barbara Cassin – filosofa, ellenista, filologa – è la sofistica. “Dokei moi”, che significa “a me pare”, è l’espressione con cui gli interlocutori nei dialoghi platonici iniziano il proprio discorso sull’argomento proposto da Socrate. Nei primi dialoghi scritti da Platone, il punto di vista dei sofisti, e il loro modo di ragionare, è molto presente mentre, dopo la condanna di Socrate, Platone, per paura, comincia a prendere le distanze dai sofisti, che lui stesso considera corruttori dei giovani che con i loro discorsi allontanano dai valori fondanti della città.

Per Cassin, l’elemento decisivo della sofistica è il discorso, perché il discorso “fa cose” con le parole. Sulla scorta dei suoi studi di filosofia del linguaggio (punto di riferimento è John Langshaw Austin, il filosofo del “linguaggio ordinario” e del linguaggio performativo), Cassin ritiene che il linguaggio non si limiti a descrivere, ma è azione che trasforma il mondo.

Due sono i più importanti esempi che Cassin porta a sostegno di questa tesi. Innanzitutto il discorso che Gorgia, il principale sofista, pronuncia in difesa di Elena, sulla quale ricade la colpa per la guerra. Il discorso di Gorgia riafferma la potenza della parola perché ribalta questo convincimento e lo fa in base a un argomento che a sua volta afferma la potenza delle parole: Elena è da ritenersi innocente per la forte carica persuasiva esercitata su di lei dal discorso di Paride.

Nel processo di pacificazione del Sudafrica alla fine dell’apartheid, Nelson Mandela istituisce la Commissione per la verità e la riconciliazione. Chi si era reso colpevole di violazione dei diritti umani poteva, a patto di rivelare in modo completo i fatti, chiedere l’amnistia, che veniva concessa individualmente, non in modo indiscriminato. Il confronto pubblico tra la verità dei carnefici e quella delle vittime consentì di arrivare a una “soluzione negoziata”, ad accertare “abbastanza verità” (come disse l’arcivescovo Desmond Tutu, presidente della Commissione) al fine di dar vita al “popolo arcobaleno” del nuovo Sudafrica.

Dal femminismo sofista di Barbara Cassin viene, innanzitutto, l’indicazione che l’universale è sempre l’universale di qualcuno. “Bisogna conoscere due lingue per sapere che se ne parla una”, dice Cassin. La metafisica poggia sulla convinzione che l’essere e la parola-pensiero coincidano senza scarti, ma i Greci, nota, parlavano una sola lingua, la loro. L’espressione ”abbastanza vero” di Desmond Tutu e il carattere relativo della parola sulla verità rimandano al detto di Protagora, il primo sofista: “l’umano è misura di tutte le cose”. Questo significa che bisogna esercitare il giudizio, sopportando il peso di “essere misura”.

Da sinistra: Stefania Tarantino, Nadia Fusini e Maite Larrauri. Alle loro spalle: Alessandra Bocchetti e Franca Chiaromonte