Logo seminario estivo della Società Italiana delle letterate
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TEMPO BREVE: il tempo frammentato e accelerato che negli ultimi anni sempre più investe e trasformail nostro modo di vivere e percepire la realtà.

VIRTUALITA’ DEL PRESENTE: la presenza del virtuale nelle narrazioni in quanto risultato di un assottigliarsi del confine tra reale e virtuale anche nelle nostre singole vite e soprattutto una modificazione consistente del nostro modo di percepire tale confine, edi leggerlo e interpretarlo.

Da alcuni decenni assistiamo a una sorta di aumento progressivo della velocità della narrazione. Usiamo qui la parola narrazione nel suo senso più generale e comprendente l’uso di mezzi differenti (scrittura, cinema, televisione, fumetti o graphic novel, teatro, ecc.). Il ritmo è diventato via via più sostenuto, attraverso la messa in opera di tagli, movimenti, sincopi, che forniscono al fluire della trama un respiro quasi in rincorsa, dove le pause sono la bestia nera da tenere a bada. Ciò è 2

 

particolarmente evidente se si confrontano film di epoche diverse, rappresentazioni teatrali, programmi televisivi per i quali la velocità della narrazione mette in condizione di datare con relativa sicurezza quello che stiamo vedendo, di assegnarlo a un periodo o a un altro della nostra storia recente.

Anche le nostre vite hanno subito la stessa accelerazione – come, apparentemente, il susseguirsi degli eventi, peraltro; la cronaca che si fa Storia raccontata in diretta che scorre nei Tg a narrazione h 24, fatta di atti di terrorismo, catastrofi naturali e tragedie umane come le migrazioni, moltiplicate all’infinito in un tempo che perde di linearità per assumere il carattere angoscioso della circolarità senza soste. Siamo ormai abituate a seguire più cose in contemporanea, a riempire maggiormente le nostre giornate; il ritmo del nostro lavoro – che spesso sono più lavori e/o attività – sconfina, tracima, nello spazio che un tempo si definiva “privato”, è diventato affannato; il nostro respiro si è fatto corto, breve.

Naturalmente anche in passato – forse da sempre – il tempo è stato un elemento importante sul quale si sono giocati significati e senso del narrare. Basti pensare anche solo al Proust de La recherche o alla Virginia Woolf di Orlando e de Le onde. E l’elenco sarebbe lungo. E tuttavia oggi ci pare di cogliere, in una serie di uscite editoriali, testi che sembrano cercare nuove modalità di racconto. Perché quello che sembra intrecciarsi a costituire una novità delle scritture contemporanee è da una parte una riflessione sullo scorrere della vita – magari anche solo di una sola specifica vita – e dall’altra gli effetti dell’accelerazione indotta e moltiplicata dalla spinta provocata dallo sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione. E, ci pare, soprattutto della rete di Internet con la sua possibilità di costante connessione e con la capacità di creare “ambienti” virtuali altrimenti inaccessibili e legami/relazioni praticabili soltanto o soprattutto on-line e non nel mondo reale: virtuali, appunto, ma allo stesso tempo percepiti e agiti come reali anche solo per il fatto di occupare concretamente parte del nostro tempo individuale. Allo stesso tempo, grazie alle medesime modalità temporali, la virtualità di una parte del nostro presente consente anche la creazione di nuovi spazi di libertà, pubblici e privati, che inaugurano altrettante modalità di relazioni, fisiche non virtuali, connessioni intellettuali e interazioni multiculturali, collezioni infinite di materiali umani e sociali, nemmeno lontanamente immaginabili anche solo dieci anni fa.

In effetti Internet e le nuove tecnologie stanno alterando enormemente il modo di comunicare; comunicare sia informazioni sia emozioni. Modificando altresì il modo di recepire e utilizzare quanto viene “condiviso”. E da questa condivisione, nel bene e nel male che da essa può derivare, scaturisce anche un nuovo modo di percepire la propria identità e la propria vita, come ben sintetizzato dalla sociologa americana Sherry Turkle quando parla di “disagio della connettività”: «sovrastati dal volume di impegni e dalla velocità della nostra vita, ci rivolgiamo alla tecnologia per trovare il tempo; ma la tecnologia ci rende più indaffarati e sempre più alla ricerca di un rifugio. Gradualmente arriviamo a considerare la nostra vita on-line come la vita stessa» (Turkle p. 70). E questo ha 3

 

ricadute non solo su come ridefiniamo il nostro io ma anche su come consideriamo il tempo della nostra vita, su come guardiamo il passato, il presente e il futuro.

Un film uscito nel 2013, Her di Spike Jonze, pone domande interessanti su ciò che sono i rapporti tra le persone in era digitale e in un passaggio una voce fuori campo dichiara che «il passato è solo una storia che raccontiamo a noi stessi». Se così è, se il passato è solo una storia tra le tante possibili, diventa ancora più interessante vedere come questo racconto venga giocato da autori e autrici contemporanei.

Vorremmo partire prima di tutto da Meneseteung, un racconto di Alice Munro che si apre e si chiude tra le tombe e che nel raccontare la vita di una donna diventa una sorta di saggio di tutto ciò che è possibile fare col ritmo della narrazione, che viene usato dall’autrice come una sorta di meccanismo a focali intercambiabili; per poi concludere che forse nulla è vero e che tutto è letteratura. Parole che si sforzano di afferrare lo sgocciolio nel tempo:

La gente è curiosa. Alcuni lo sono. Hanno voglia di scoprire le cose, anche le più insignificanti. E poi di collegarle. Ogni tanto li si vede girare con un taccuino in mano, ripulire le tombe dal terriccio, scorrere un microfilm, nella speranza di scoprire uno sgocciolio nel tempo, un aggancio, la possibilità di salvare una cosa dalle macerie.

E può anche darsi che si sbaglino. Può darsi che io mi sia sbagliata. Non so se Almeda abbia mai preso il laudano. Molte signore lo prendevano. Non so nemmeno se abbia mai fatto la gelatina d’uva. (Munro 2015, p. 83)

Sull’efficacia del racconto, pur nella sua frammentarietà, nel narrare qualcosa che sfugge all’umana ragione già si era soffermata Laura Fortini (Fortini 2012). D’altra parte la forma breve è una delle due facce della fibrillazione della narrativa sul problema del tempo. Per Michael Bourne:

viviamo tutti nel nostro iper-romanzo personale, mentre incollati ai telefoni rimbalziamo dai litigi su Twitter agli abbordaggi su Tinder, fermandoci solo per cliccare sull’ultimo video di gattini postato su Facebook da un nostro amico. Ma, stranamente, quando si tratta di scegliere come svagarsi offline non siamo attirati da libri e serie tv che rispecchiano le nostre vite disseminate di link. Al contrario, nell’epoca della distrazione digitale, desideriamo la narrazione, meglio se corposa, potente e totalizzante. (Bourne 2016)

Per assecondare questo desiderio gli scaffali delle librerie si sono riempiti di opere che impiegano tre o quattro volumi per disegnare l’arco delle proprie storie (l’altra faccia della “fibrillazione” di cui sopra). Basta pensare a Elena Ferrante, sui cui abbiamo lavorato nel seminario del 2014, o anche a Murakami Haruki, 1Q84. La storia dello scrittore giapponese, il cui titolo allude al celeberrimo romanzo di George Orwell, 1984, racconta una complessa vicenda che si snoda in un futuro lontano dal presente di soli dieci anni (1984-1994), concedendo alla protagonista e al lettore ampi margini di confusione-riflessione, che suggeriscono come la scelta di chi scrive sia orientata piuttosto che verso un balzo in avanti o un ritorno al futuro, a un leggero scivolamento dal presente. Che favorisce una ambivalente percezione del reale così come è visto e anche come potrebbe invece essere vissuto senza operare complessi voli in mondi fantastici: 4

 

Grazie, – disse l’autista. – Faccia attenzione, il vento è piuttosto forte. Stia attenta a non scivolare. – Starò attenta, – disse Aomame. – E poi… aggiunse l’autista guardando nello specchietto retrovisore. – Le consiglierei di tenere a mente un fatto, e cioè che le cose sono diverse da come appaiono. «Le cose sono diverse da come appaiono…» Aomame si ripeté queste parole nella mente. Poi corrugò leggermente le sopracciglia. – E questo cosa vorrebbe dire? L’autista rispose, scegliendo con cura le parole: – Allora, detto in altri termini, lei sta per fare una cosa che non è usuale. Non è vero? (…) Quindi una volta fatta una cosa del genere, è possibile che il suo paesaggio quotidiano le appaia un po’ diverso. Anch’io ho avuto un’esperienza simile. Ma non si lasci ingannare dalle apparenze. La realtà è sempre una sola. (Murakami 2011, p. 12)

Tornando alla questione di come il tempo del racconto sia un meccanismo da scardinare e riassestare nei modi più diversi, possiamo da una parte collocare alcuni recenti romanzi a firma maschile – come Il senso di una fine di Julian Barnes o Snuff o l’arte di morire di Salvatore Mannuzzu – che non si discostano in modo significativo dal modello della narrazione lineare; dall’altra disporre di romanzi come Olive Kitteridge di Elizabeth Strout o Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan che invece preferiscono una costruzione narrativa a tasselli, nella forma di un puzzle che sarà la lettrice/il lettore a poter/dover ricomporre. Sempre a puzzle, un puzzle che la narrazione riesce finalmente a ricondurre a armonia, è la struttura che Loredana Lipperini ha dato al suo Questo trenino a molla che si chiama cuore. Mentre Valeria Viganò con La scomparsa dell’alfabeto, utilizza un criterio quasi cartografico per disegnare la biografia della sua personaggia, che guarda al tempo della sua vita come se fosse una carta geografica da distendere sulla scrivania e procedere su essa con righello e matita per seguire le linee altimetriche della propria parabola emotiva. E’ dall’alto della vetta più alta del suo passato-presente-futuro che Nona giudica tutta la sua vita e la sua traiettoria di senso, proprio nel momento in cui il tempo della vita e, soprattutto, della memoria (“la piccola porzione di futuro che la attende”, p.11) sta per finire e lei decide di affidarla, per brevi tranci di tempo, all’ora di racconto delle sedute psicoanalitiche.

Insomma, potremmo chiederci se alle narratrici piace giocare col tempo in maniera più originale e avventurosa dei loro colleghi. Non per dedurne in modo scontato e drastico che esiste anche su questo piano una differenza di genere, ma solo per mettere a tema una questione nella cornice del nostro seminario e verificarla insieme.

Accanto alla sempre maggiore velocità con cui viviamo e raccontiamo e recepiamo storie, c’è un’altra modificazione che sta alterando progressivamente tutto ciò ed è la questione del sé, che vede un’articolazione sempre più complessa e problematica del rapporto tra identità reale e identità virtuale. E che reca come appendice la cancellazione della sfera dell’intimità con conseguenze devastanti (ma qui è la narrativa distopica alla Dave Eggars a raccontarcelo) sul piano dei possibili esiti delle società democratiche. Pista cui accenniamo soltanto perché ci sembra più opportuno focalizzarci invece sulla sempre maggiore porosità del confine tra reale e virtuale. Quando, riprendendo Turkle, arriviamo a considerare la vita on- 5

 

line come la vita stessa – o una sua parte consistente; quando giochiamo con le nostre identità o cerchiamo amici/amiche nei più diversi angoli della Rete dobbiamo ammettere che la parola e il concetto stesso di “realtà” vanno ripensati: ampliandone il significato, certo, ma anche forse ridefiniti rispetto alla relazione con l’immaginario cui siamo abituate/i a pensare. La necessità di questo interrogativo si manifesta sia nelle narrazioni “contratte” alla Egan (che in Black Box – attraverso unità minime di non più delle 140 battute dei tweet originariamente utilizzati per comporla e condividerla in rete – costruisce una narrazione sincopata fatta di telegrafici comandi mentali memorizzati da una spia del futuro), sia in quelle “dilatate”, che sembrano dilagare in orizzontale (sul piano del presente, o meglio a partire dal piano di un presente atemporale) sia le narrazioni “storiche” sia quelle fantasy. Con un ulteriore effetto di instabilità/rovesciamento dei generi: si vedano, ad esempio, la saga di Hunger Games (libri e film), utopia/distopia che si rovesciano l’una nell’altra tanto nell’immaginazione del mondo quanto nella costruzione della personaggia centrale, Katniss Everdeen; oppure la costruzione iper-fictional di Che fine ha fatto Harry Quebert?, dove il racconto delle indagini “reali” sul caso della ragazza scomparsa si confonde, si sovrappone, si mescola alla scrittura (fiction) del romanzo che il narratore sta scrivendo e persino con un altro romanzo, quello che aveva scritto il presunto colpevole, che è a sua volta uno scrittore: un meccanismo-matrioska dove la porosità del confine tra realtà e finzione, tra verità e menzogna è del tutto evidente.

E quindi, l’altra domanda che mettiamo al centro del nostro seminario: come viene modificata la produzione di storie in un mondo dove l’ambiente virtuale che si produce nell’essere sempre connessi sta cambiando il rapporto tra realtà e immaginario, e la modalità delle relazioni tra soggetti?

Come anche nella scorsa edizione, abbiamo individuato tre testi tra quelli appena citati e che secondo noi si prestano meglio a costituire le basi del ragionamento che vorremmo venisse sviluppato nel seminario. E sono Meneseteung, il racconto di Alice Munro, il romanzo di Murakami 1Q86 (soltanto il primo volume), e il romanzo di Valeria Viganò, La scomparsa dell’alfabeto. Questi ultimi due testi sono disponibili anche in formato elettronico (e-book).

Ci auguriamo che tutte le partecipanti al seminario possano intervenire in maniera distesa e argomentata e proprio per questo abbiamo limitato a due soltanto le relazioni cosiddette di scenario.

Il tempo si lacera. Dove ritrovare i prati della mia infanzia? I soli ellittici rappresi nello spazio nero? Dove ritrovare il cammino che oscilla nel vuoto? Le stagioni hanno perduto il loro significato. Domani, ieri, che vogliono dire queste parole? Non c’è che il presente. Una volta nevica. Un’altra volta piove. Poi c’è un po’ di sole, un po’ di vento. Tutto ciò è adesso. Non è stato, non sarà. È. Sempre. Tutto insieme. Perché le cose vivono in me e non nel tempo. E in me tutto è presente. Ieri –Agota Kristóf

Il tempo è un uomo e è meglio non farselo nemico. (Alice attraverso lo specchio, film di James Bobin, 2016)

SEMINARIO Ideato e organizzato da Paola Bono, Anna Maria Crispino, Laura Fortini, Monica Luongo, Giuliana Misserville e Marina Vitale