Articolo di Simona Brunetti da Alfapiù

Foto di Giorgio Benni

— Rintracciare il bandolo della matassa di un percorso artistico come quello di Alfredo Pirri, il cui lavoro si è sempre contraddistinto per economia e linearità di risorse espressive, è operazione tutt’altro che semplice. Man mano che ci si inoltra negli spazi del MACRO Testaccio in cui è allestita la personale dal titolo I pesci non portano fucili, la sensazione è che quel bandolo vada ricercato in un territorio situato oltre i confini del formalismo di derivazione minimalista entro cui vengono spesso incasellati i suoi lavori.

foto di Giorgio Benni

E, più precisamente, all’interno di un piccolo modello architettonico esposto in uno degli ambienti della mostra, un progetto realizzato nell’ambito di Aperto ’88, sezione della Biennale di Venezia all’epoca curata da Giovanni Carandente. Cure era il titolo di questo padiglione – al cui interno era visibile una sola opera, una delle cosiddette Squadre Plastiche – che recava incise sulla facciata, leggibili in verticale, una serie di parole come altrettanti prelievi linguistici propri di un certo modo di esprimersi da parte dei critici oppositori del cosiddetto movimento postmoderno. «In un momento come quello odierno» – scriveva Giorgio Maragliano nel libretto edito in quell’occasione dalla Galleria Planita – «in cui la consumazione di un’eredità storica determina sintomaticamente polarità terminologiche che assumono in breve tempo la natura di datità indiscutibili, come quelle di “moderno” e “post-moderno”, la facilità dogmatica con cui qualsiasi opera viene rubricata sotto l’una o l’altra denominazione, serve più l’economia elementare del discorso che l’elaborazione di un argomento».

La ricerca di Alfredo Pirri, lo si evince grazie allo sguardo d’insieme che questa mostra restituisce presentando un corpus di circa cinquanta opere dalla fine degli anni Ottanta a oggi, è, da oltre un trentennio ormai, focalizzata su questo «argomento» – e in esso è da intravedersi il famoso bandolo – che, escludendo ogni discorso linguistico inerte e chiuso in se stesso, sgombra il terreno da ogni sospetto di formalismo puro e lo trasforma in spazio poetico. È una storia, la sua, di resistenza alle fratture epistemologiche che contraddistinsero sin dai primi anni della sua carriera il dibattito tra «moderni» e «post-moderni», decretando la crisi di preposizioni paradigmatiche autonome e troppo spesso svincolate dall’opera. La quale rimane, invece, l’unica «abitazione di un’idea», come Pirri stesso scrive proprio a proposito del padiglione Cure.

Dunque, all’interno di una compagine culturale che in quegli anni asseriva la fine delle tecniche artistiche tradizionali, Pirri continua a sentirsi un pittore: avvertendo tuttavia sin da subito i limiti della visione frontale e continuando a cercare una relazione con lo spazio. In questo senso quasi tutte le sue opere «pittoriche», dalle più note e anticheSquadre plastiche (1987-88) ai lavori più recenti comeVerso N (2003), le Arie (2014) o iKindertotenlieder (2015), esprimono quella capacità del colore di raccontare l’esistenza attraverso un’immagine tenuta segreta fino al momento in cui si rivela a contatto con lo spazio, al tocco di un’altra superficie; momento in cui l’opera si accende di un alone luminoso esistenziale e sentimentale «come l’aureola dei santi» – per citare un’espressione dell’artista in un’intervista con Giacinto di Pietrantonio, sempre nel catalogo della galleria Planita – e diventa «una testimonianza nuova perché stupita dall’esistenza nuova, ma non per questo assente dalle cose del mondo».

Tale comportamento stereometrico del colore dichiara ed evidenzia un’appartenenza del lavoro di Pirri alla grande tradizione storico artistica di matrice essenzialmente italiana; riporta a quella qualità tattile che il teorico Bernard Berenson aveva individuato nella pittura rinascimentale, quella fiorentina in particolare, e che ne costituiva, a suo modo di vedere, il punctum. «I valori tattili» – scrive Berenson – «si ritrovano nelle rappresentazioni di oggetti solidi allorché questi non sono semplicemente imitati […] ma presentati in un modo che stimola l’immaginazione a sentirne il volume, soppesarli, rendersi conto della loro esistenza potenziale, misurare la loro distanza da noi, e che ci incoraggia, sempre nell’immaginazione, a metterci in stretto contatto con essi, ad afferrarli, abbracciarli, a girar loro intorno» ( Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva, Milano 1953). È in questo continuo rimettersi in gioco, e rimettere in gioco lo sguardo rispetto allo spazio, nel suo rimanere sospesa tra due polarità opposte, gravità e leggerezza, movimento e stasi, e dunque nel suo stato continuo di soglia, di liminare che continuamente si infrange e si apre a nuove visioni (si pensi all’opera Passi, un pavimento di specchi rotti che continuano a rompersi al passaggio del visitatore), che è da ricercarsi dunque l’essenza dell’opera di Pirri. Un’opera chiamata a esprimere sempre il suo «argomento», il suo punto di vista critico ed etico: nel continuo travaso tra apparenza ed essenza ciò che vediamo sulla superficie è la diretta emanazione di ciò che è dentro. Non c’è scampo.

 

Dal titolo della mostra I pesci non portano fucili, citazione dal libro Divina invasione di Philip K. Dick, voglio trarre tre immagini. La prima riguarda la fluidità di uno spazio che, pur essendo pensato e scandito dall’artista secondo partiture architettoniche che riproducono una piccola città, rimane uno spazio liquido, materia in movimento, opera essa stessa che, come nel meccanismo dei cerchi nell’acqua, si genera dal riverbero di onde energetiche provenienti dalle opere che contiene. Ed è qui che trova il suo appiglio concettuale la seconda immagine che mi viene incontro direttamente dall’ultimo ambiente del percorso espositivo, quella in cui è esposto Gas, lavoro installativo del 1989-1990: i dispositivi simili a porta-disegni che saturano la stanza immersi nella penombra, alludono simbolicamente al luogo in cui le cose «stanno» – le tavole ad asciugare, il pane a lievitare, le piante a germogliare eccetera – mentre al loro interno qualcosa «accade». È lo stato apparente di quiete dei pesci nel vuoto, che in realtà è un tutto pieno, di quella sostanza inafferrabile ai sensi che è l’acqua. È lo «stare» dell’artista in uno stato di tensione generativa contro lo scorrere tempestoso delle cose. È il suo «stare» in guerra – contro ogni ideologia predefinita, impositoria, violenta – armato solo della sua poetica.

La terza e ultima immagine è dunque quella dei libri disposti sul pavimento della Stanza di Penna (1999) – opera ispirata da un fotogramma del video Umano non umano di Mario Schifano, che intervista il poeta e scrittore Sandro Penna nella sua stanza da letto disseminata di libri – a formare un vero e proprio schieramento militare. Illuminandosi delle ombre di colore che si proiettano addosso l’un l’altro, forti della loro sostanza poetica, sono pronti a difendere qualunque incertezza, qualunque paura di perdersi o desiderio di ritrovarsi; o, al contrario, ogni desiderio di perdersi o paura di ritrovarsi. Sempre e comunque in quel territorio dai margini incerti che è l’opera.

 

Alfredo Pirri  –  I pesci non portano fucili  –  a cura di Benedetta Carpi de Resmini e Lorenzo Pratesi

  –  Roma, MACRO Testaccio, 12 aprile-3 settembre 2017