Grazie a Valentina Capati per il suo contributo, una riflessione che amplia lo spazio e il senso della discussione sulla violenza.

Sono di Terni, in Umbria. Il sindaco della mia città Stefano Bandecchi ha rilasciato nei giorni appena precedenti l’inaugurazione di un parco giochi a tema natalizio diffuso in tutte le vie del centro cittadino, qualcosa di agghiacciante: “Uomini che non tradiscono la fidanzata vanno contro natura, poi diventano violenti”.

Ogni volta che mi è capitato di rileggere questa intervista ho avuto brividi, e paura.

Mi risuona in mente Dacia Maraini: “La cultura è etica. Se uomo ammazza una donna è perché la sua cultura è approssimativa”. 

È una fame d’amore lacerante

La fame d’amore che provano gli uomini e le donne a questo mondo è lacerante. Solo che al tavolo dell’amore uomini e donne non siedono con le stesse carte.

Nelle bambine viene istigata la ricerca dell’amore maschile, nella convinzione che questo possa completarle. Nei bambini l’espressione di amore è sempre commisurata al doversi dimostrare potenti, saldi. Mai emotivi, razionali.

E quando una relazione finisce in questo cuscino patriarcale qui rimbalzano tutte le idiosincrasie di una lettura delle relazioni distorta da uno sbilanciamento di potere: se l’amore lo devi possedere e maneggiare, se l’amore è una spunta doverosa nella soddisfazione campionaria dell’esistenza maschile, “perdere” il match porta all’esasperazione dell’ego e alla volontà di depredare l’altra dell’unica cosa che di lei si può possedere. Il suo corpo.

“La verità che non diciamo è che gli uomini desiderano ardentemente l’amore. È questo desiderio che le teoriche del femminismo devono avere il coraggio di analizzare, di esplorare e discutere. Quei pochi che hanno abbracciato il femminismo visionario, ora non sono più solo femmine, non hanno paura di affrontare apertamente la questione degli uomini, della mascolinità e dell’amore. Alle donne si sono uniti anche gli uomini dalla mente aperta e dal cuore grande, uomini che amano, uomini che sanno quanto sia difficile per i maschi praticare l’arte di amare nella cultura patriarcale […]. L’infelicità degli uomini nei loro rapporti, il dolore che provano per il fallimento dell’amore, nella nostra società passa spesso inosservato proprio perché in realtà alla società patriarcale non interessa se gli uomini sono infelici. Quando le donne provano una sofferenza emotiva, il pensiero sessista secondo cui le emozioni possono e devono essere importanti per le donne consente alla maggior parte di noi almeno di esprimere il nostro dolore, di dirlo a qualcuno, che sia un amico uno psicanalista o uno sconosciuto seduto accanto a noi in aereo o in autobus. I costumi patriarcali impongono agli uomini una sorta di stoicismo emotivo in base al quale sono più virili se non provano sentimenti ma, se per caso dovessero provarli e quei sentimenti li ferissero, l’unica reazione virile sarebbe soffocarli, dimenticarli, sperare che spariscano”.

bell hooks, La volontà di cambiare (pp.24-24)

Perché le donne siano sicure e libere e perché gli uomini non vivano più da “secondi empatici” bisogna liberare i vulnerabili. Riconoscendo la vulnerabilità come un tratto cui siamo tutti universalmente passibili. Una battaglia radicale che demolisca il sistema ricostruendolo interamente, dando a tutte e tutti una possibilità di stare al mondo diversa dal matrimonio patriarcale o dalla solitudine di crescere un figlio con lavoro a carico. Dobbiamo abituarci a smettere di pensare in piccolo, di pensare ad un amore così piccolo da stare comodo nelle maglie di una idea assunta come universale per pura superstizione.

L’uomo scopra le sue debolezze e le proprie vulnerabilità.

La violenza sulle donne subisce un paradosso sociale: per quanto evidente nella sua efferatezza è un fenomeno che grandi bacini sociali non sono disposti a definire, minandone l’esistenza.

Quello che non nomini non esiste. E intorno a questo voluto disconoscimento prolificano espressioni incendiarie: “se non tradisci, ammazzi”.

Perché mentre ci concediamo il lusso di permettere ai più di scandalizzarsi dell’essere donne, i femminismi registrano ondate storiche pregne di significato?

È storia. Storia che testimonia l’interesse, vivo e diffuso, per la riflessione sulle potenzialità e sui limiti degli strumenti giuridici rispetto al superamento delle diseguaglianze di genere e al sovvertimento dei modelli patriarcali ancora imperanti nelle nostre società.

Quando una donna è lesionata nel corpo è lesionata nella sua soggettività. Quando una donna viene massacrata di botte è massacrata nella sua identità. Perché quel corpo ha un altissimo significante simbolico e di conseguenza politico.

Dobbiamo abituarci a smettere di pensare in piccolo. Pretendere che chi esercita il potere smetta di nuotare nella melma che infanga le donne con destrezza nutrendo distorsioni.

Sull’onda dell’ennesimo femminicidio si interviene sulle misure restrittive, ma non sulle basi culturali che sono all’origine delle violenze. Se non si cambia modello culturale non può funzionare la prevenzione.

Le parole di un sindaco disegnano quella cultura.

Ripensiamo i padri

C’è una quota nomade della tenerezza, condannata ad errare per una generazione in attesa di potersi dimorare nell’espressione sentimentale: è la tenerezza dei padri.

A cosa è costretto a rinunciare un padre nell’acquisire la forma della sua genitorialità come declinata dal sistema patriarcale? E se questa costrizione non fosse stata una cattività, avrebbe davvero rinunciato di propria sponte ad esprimere in maniera libera il proprio sentire?

E quanti, ad oggi, sono gli uomini disposti a rimanere in questa costrizione? Quanti se posti nella condizione di spezzare le catene rimarrebbero nella condizione di una emotività costretta alla vagabondaggine?

Alla mercè dell’attendere il secondo salto generazionale, e potersi esprimere nella loro completa libertà sentimentale solo con i nipoti? D’altra parte la società è più incline ad accettare un uomo senile incline alla tenerezza, l’età è un agente super partes.

Almeno alla madre è concesso di sprigionare il sentimento di tenerezza, al padre è permesso di poterlo esperire esclusivamente a mezzo della possessività, questa forma si condensa teoricamente nella concezione della famiglia come nucleo fallocentrico, dove il padre esula da sé la libertà di darsi teneramente in cambio di un privilegio in termini gestionali affettivi (che, di fatto, risultano mortificanti) e materiali.

Il sistema di considerazione primaria del sesso maschile ha quindi pervaso la società creando il Frankenstein della tenerezza: un uomo di patchwork cui si ascrivono i primati di gestione e che è costretto a ritagliarsi inserti di sentimenti da esprimere nei soli confini imposti dal patriarcato. È un mondo che si è tagliato via un arto importante: il braccio dell’uomo generativo.

Quando nasce un bambino, ancora oggi nel 2023, nasce stigmatizzato dalla mascolinità patriarcale, marchio tossico. Una sorta di mano invisibile che distribuisce etichette l’ha già bollato coi distintivi di ‘bambino coraggioso’, ‘bambino che non piange’, il campione. Sono medaglie difficili da spuntare dal petto, medaglie sulle quali ragionerà nel silenzio della propria età adulta.

Cresciamo deliberatamente figli a cui chiediamo di trascurare, di non calcolare troppo, il piano emotivo, perché? Abbiamo paura possano scivolare nella trappola dell’ambiguità sessuale? Ma cosa sono i sessi?

Nonostante siamo tutti più o meno convinti di agire su di loro animati dalle migliori intenzioni e di educarli al rispetto e alla parità in realtà le nostre ambizioni si annullano in una società che non è affatto ancora pronta a cambiare. Eppure lo sguardo relazionato sul mondo non è una forma di sensibilità, è una competenza.

I segni del patriarcato si leggono schiettamente nelle parole tossiche, negli sghignazzamenti, nel cazzotto in canna. Non abituiamoci a questo.

Il modello del guerriero nelle centinaia di anni in cui ha dominato non ha realizzato una società felice: la violenza è un mezzo di controllo sociale.

Valentina Capati