Tutti sanno che Pinocchio ha un babbo: Geppetto. Pochi, invece, sanno, o immaginano che ebbe anche una “mamma”: Emma Perodi, che dirigeva “Il giornale per i bambini” dove pubblicò “Storia di un burattino”, cioè “Pinocchio” di Carlo Collodi. Ma Emma Perodi, nata nel 1850, era anche, lei stessa, una scrittrice di favole.

Di quante matrigne è piena la letteratura per l’infanzia! La matrigna di Biancaneve di Cenerentola, di Pollicino e ad una terribile matrigna dedicò una storia  anche la nostra Emma Perodi.

Più cattiva di quella di Biancaneve? Molto più cattiva. Più cattiva di quella di Cenerentola? Molto più cattiva. Più cattiva di quella di Pollicino? Molto più cattiva. E diremo di più: c’è anche la figlia, cioè la sorellastra, brutta… naturalmente!

Mentre lei, la protagonista, è buona, dolce e bella… naturalmente! Si chiama Lavella, figlia della defunta moglie del conte  Beltramo il quale, dopo un po’ di tempo, si risposò. Costei non era né bella, né buona di carattere, ma il conte Beltramo se ne accorse soltanto quando l’ebbe portata a casa sua “e allora  – commenta la Perodi –   non c’era più rimedio”.

I primi anni della vita di Lavella trascorsero tranquilli con balia che dedicava a lei ogni cura; ma quando ebbe compiuti sette anni, Chiarenza, la matrigna, disse al marito che doveva occuparsene lei perché se l’avesse lasciata nelle mani della contadina, sarebbe cresciuta rozza e villana.

Anche Chiarenza aveva dato al marito una figlia, ma se la primogenita era bianca come un giglio e rossa come un garofano, l’altra era gialla come una mela avvizzita. Quando Chiarenza vide le due bambine, una accanto all’altra, fu presa da una tremenda invidia per la figliastra e non cessava un momento di torturarla.

Per ottenere che dal volto di Lavella scomparisse l’incarnato, non la faceva mai uscire dalle sue stanze e le imponeva di star tutto il giorno curva sul telaio a trapuntare tappeti o gonfaloni, o a pregare inginocchiata sulle lastre di pietra della scura cappella. Ma neppur questa vita di reclusione alterava la bellezza della bambina; ella si faceva un po’ più delicata, ma non più brutta. Anzi pareva che ogni giorno che passava si compiacesse di imprimerle sul volto nuove attrattive, e nel cuore maggior dose di bontà e di dolcezza. Dalla sua bocca non usciva mai un lamento, e i paggi e i valletti del castello di Caprese la chiamavano l’angioletta, tanto dal suo volto emanava un sorriso celestiale. Le donne della contessa Chiarenza, invece – sottolinea Emma Perodi –  per assecondare la loro signora, non cessavano di parlare di lei con disprezzo e se la potevano accusare di qualche cattiveria verso la sorella, se ne ingegnavano.

Il conte Beltramo non ascoltava né le lodi dei valletti e dei paggi, né le denigrazioni delle donne. Passava la vita a caccia o in guerra.

Lavella compì quindici anni e il conte Beltramo era fiero di lei.  Una volta la condusse a una giostra a Bibbiena, e il più bello e prestante cavaliere di casa Ubertini vestì i colori di lei per scendere nella lizza. Chiarenza si torse le mani dalla rabbia, vedendo che il cavaliere, dopo aver vinto i suoi avversari, andò a inginocchiarsi dinanzi alla bella fanciulla e la proclamò Regina del torneo.

“Me la pagherà!”  fa dire Emma Perodi alla matrigna indispettita.

Poco tempo dopo, Beltramo partì dicendo, a sua volta, alla moglie: “Quando torno faremo le nozze! Guglielmo Ubertini è innamorato di Lavella”.

“Lavella – le disse la matrigna – ora sei affidata a me soltanto e siccome so che tu hai rivolta avversione per me, voglio risparmiarti il tedio della mia compagnia. Va’ nella tua camera e non ne uscire fino al ritorno di tuo padre”.

Lavella chinò la testa e uscì. Quando fu in camera sua, mentre piangeva, sentì una carezza sui capelli e alzando gli occhi vide dinanzi a sé un angiolo con le ali bianche, la veste bianca, e i gigli in testa a guisa di corona.

“Chi sei, angiolo bello e chi ti manda da me?” domandò Lavella.

Sono il tuo angiolo custode: “Tua madre, salendo al Cielo quando tu eri piccina, mi pregò divegliare su di te, di rallegrare la tua infanzia e proteggerti sempre. Ora la tua matrigna vuol farti morire, prima che torni il conte Beltramo e posandole in grembo un liuto le raccomandò: “Mangia solo ciò che ti porto io. Quello che ti portano altri contiene certo del veleno e quindi sminuzzalo sul pavimento: verranno le formiche e i sorci a portarlo via”. E qui il racconto assume tutti i toni cari alla letteratura popolare dell’epoca che fecero di Emma Parodi una scrittrice gettonata.

“Sentite, canta quella dispettosa! – diceva alle sue donne Chiarenza – Le avverrà come alle cicale: dopo aver cantato un mese, creperà”.

Infatti, quando andava a passeggio nei boschi raccoglieva fiori e piante profumate per nasconderci quelle velenose da mettere nel cibo destinato alla figliastra.

“Come sta Lavella?” domandava ogni mattina madonna Chiarenza alla servente che le recava il cibo.

“E’ bianca come un giglio e rossa come un garofano” rispondeva la donna.

Come mai tutto il veleno che le metteva nel cibo non le produceva nessun effetto? Si domandò la matrigna e decise di rinchiuderla in cima ad una torre. Non soddisfatta vi appiccò anche il fuoco attendendo, invano, che la torre crollasse. E come in ogni fiaba che si rispetti il conte arrivò a tempo e le annunciò l’arrivo del bel cavaliere Guglielmo degli Ubertini, colui che vestì i suoi colori alla giostra di Bibbiena, per domandarla in sposa.

Quante crudeltà in questa fiaba di Emma Perodi! La matrigna è di una tale cattiveria, che quella di Biancaneve al suo confronto è una novellina.

La cattiveria permea tutta la fiaba: si direbbe che ne è intrisa come un liquido appiccicoso.

Qui non c’è una mela stregata ma una quantità di cibi avvelenati tra un formicolare disgustoso di topi e il fuoco viene appiccato perché la buona finisca arrostita come una strega.

Anche in questa fiaba, come in altre, le madri muoiono per far posto alle matrigne, i padri sono latitanti. Questo se ne va a caccia tranquillo e beato, mentre in casa risuona alta e perentoria la minaccia della sua consorte ai danni della sua figliola: “Creperà, creperà!”

L’altra, la brutta è la più amata. Unica vera fortuna è che la bruttezza genera amore, se pur scaturito da un cuore un po’ malsano a scapito della bellezza che, invece, scatena odi furibondi.

L’angiolo è un po’ ridicolo: consola la Bella con fragole, lamponi e musiche celestiali ma è un tantino perfido anch’esso. Invita, infatti, la fanciulla ad osservare da vicino come i topi muoiano uno dopo l’altro dopo aver mangiato il cibo portato dalla Contessa.

Dal fuoco della torre incendiata Lavella si salva grazie ad un unguento donatole dall’angiolo che si sparge sui capelli. E viene subito alla mente un’altra perseguitata d’eccellenza, Sant’Agnese, le cui lunghe chiome la salvarono dallo stupro ricoprendola come un manto.

Era consapevole o no la dolce signora, che in una fotografia ho visto ornata da un fiocco di pizzo, di avere qualche parentela in più con l’estrosa Carolina Invernizio che non con l’assai savia Ida Baccini, scrittrice per l’infanzia tra le più popolari dei primi del novecento?

Carolina, certo, osò di più; a Emma, forse, quel coraggio mancò.

Un critico letterario, a proposito delle “Novelle della nonna” in 4 volumi, della Perodi, le ha definite “un gigantesco mazzo di forsennati tarocchi”, facendoci notare che le novelle stesse perdono la loro sovrastruttura rigida e scolastica e diventano un folle insieme di streghe paesane e diavoli ebbri, di frati impertinenti e maligni, di sanguinosi delitti, di persecuzioni, di mostruosità e di intrighi.

Insomma, aveva un debole più per i birichini che per i buoni fanciullini!

Emma Perodi morì di polmonite a Palermo il 5 marzo 1918, l’anno che chiude la prima guerra mondiale.