imagesieriEsistono profonde ragioni ideali ed etiche che hanno motivato e tuttora motivano la trasmissione di memoria delle vicende racchiuse nella parola Olocausto, e presiedono alla ri-narrazione rituale di esse, ad una data annualmente condivisa perché significativa e simbolica. Serbare la memoria, ce lo ripetiamo, aiuta a comprendere la storia e i suoi percorsi difficili. Compiere il viaggio a  Oswiecim, almeno una volta nella vita, per visitare il museo di Auschwitz-Birkenau, ci aiuta a dire che ci assumiamo la nostra quota di responsabilità degli orrori e le atrocità, come un fardello di dolore che ci è stato lasciato in eredità e che vogliamo custodire ancora nel nuovo secolo, anche se al tempo dei campi nazisti non eravamo neppure nati. In quanto donne e uomini di questo paese, di questo continente, di questo pianeta. E’ un antidoto contro la dimenticanza, perché è rimasto com’era  negli ultimi giorni della “soluzione finale della questione ebraica”, perché i suoi costruttori non fecero in tempo a seppellirlo, come avevano fatto  con gli altri centri  d’internamento e sterminio disseminati in Europa.

Nella lettura della letteratura (vasta) sull’Olocausto, due domande mi ritornano sempre con inquietudine.

La prima riguarda la complessità e l’efficienza “scientifica”, l’impiego di tale quantità di tecnici e di specialisti nel sistema di annientamento delle persone “indesiderate” che la paranoica dottrina nazista aveva stabilito di eliminare: gli ebrei, i comunisti e tutti gli altri oppositori politici, gruppi etnici come i rom e i sinti, gruppi religiosi come testimoni di Geova e pentecostali, gli omosessuali, i disabili mentali e i portatori di handicap.
Molti storici dell’Olocausto, cito Raul Hilberg per tutti, hanno descritto nei dettagli le dimensioni, le caratteristiche organizzative e tecniche dispiegate dalla gigantesca macchina di sterminio nazista. La meticolosa pianificazione e attuazione del processo di distruzione,  le strutture economico-amministrative e burocrazie ministeriali appositamente incaricate, la Wehrmacht e le SS, l’apparato del Partito nazista.

E’ stato ricostruito l’intero processo dell’annientamento nelle sue diverse fasi. Dapprima l’introduzione della lunga serie di disposizioni e decreti che delinearono la cosiddetta “soluzione economica del problema ebraico” (gli ebrei sottoposti a crescenti pressioni per rinunciare alle loro attività economiche e ad andarsene). Poi la messa a punto  dall'”Ufficio per l’emigrazione ebraica” diretto da Adolf Eichmann – la banalità del male – dei progetti cosiddetti di “trasferimento degli ebrei al di fuori dello spazio economico europeo”,  attraverso il confinamento nei ghetti e successivamente nei campi di concentramento per il lavoro schiavistico e per lo sterminio sistematico.

E’ stato analizzato anche il linguaggio adoperato dall’organizzazione nazista in riferimento all’annientamento: burocratico,  allusivo, circonvoluto, eufemistico, per dire le cose senza dirle. Passò del tempo prima che si capisse che “trasferire all’est” significava  “destinare allo sterminio”. Per indicare la deportazione si usavano espressioni come Auswanderung (emigrazione), Wohnsitzverlegung  (trasferimento di residenza) e Aussiedlung  (reinsediamento). La pulizia etnica era chiamata Säuberung  (bonifica); i carri bestiame erano “treni viaggiatori speciali” (Sonderzüge). I campi di concentramento erano ordinatamente suddivisi in Arbeitslager(campi di lavoro), Frauenlager (campi per donne), Jugendlager (campi per giovani), Durchgangslager (campi di transito).

Gli eufemismi nella comunicazione della  macchina burocratico-militare nazista servivano da una parte a mimetizzare il genocidio agli sguardi esterni, dall’altra prospettavano una giustificazione ideologica dello stesso:  una sorta di “stiamo lavorando diligentemente per risolvere un problema che riguarda noi tutti”.

Ma ci è stato spiegato dagli storici, anche, che efficienza tecnica ed eufemismi servivano a rendere più impersonali e quindi meno ripugnanti i compiti agli esecutori materiali, ad alleviarne il carico psicologico sul personale tedesco addetto e salvaguardarne la solidità del sistema nervoso. Anche l’adozione delle camere a gas fu giustificata come metodo più rapido ed efficace. Per il lavoro più sporco e più crudele si utilizzavano invece gli ausiliari, ad esempio ucraini e baltici;  alle incombenze più macabre nei campi di sterminio – come il prelevamento, il sotterramento e l’incenerimento dei cadaveri – si obbligavano gli ebrei.  Vittime impotenti e annientate nel corpo e nello spirito.

La seconda domanda che mi turba ancora profondamente riguarda l’apparente consenso della popolazione tedesca che “sapeva”.  Perché  si sapeva, dentro la Germania e fuori, su questo ci sono ormai sufficienti riscontri storici. Non bastano gli artifici retorici della comunicazione, le menzogne, a spiegare l’indifferenza, o l’assenza di ribellione. E’ pur vero che fin dalla prima comparsa sulla scena politica europea, l’apparato ideologico dei partiti fascisti e nazisti si era incaricato di individuare i facili obiettivi su cui far ricadere le responsabilità del crollo esistenziale e materiale seguito alla catastrofe della prima guerra mondiale e di incanalare l’ostilità e i rancori del cittadino comune verso ebrei e comunisti, primi fra tutti, stabilendo una correlazione tra il senso diffuso di “crisi di civiltà” e una presunta “minaccia della cospirazione giudeo-bolscevica ai valori della società ariano-cristiana”.  Cui seguì la progressiva stigmatizzazione e criminalizzazione dei “nemici interni”, la cancellazione delle storie individuali degli “indesiderabili” attraverso la negazione del diritto di parola e di auto-rappresentazione, la disumanizzazione attraverso la riduzione delle vittime a numeri. Secondo la raffinata e perversa strategia del modello Auschwitz,  tutto doveva concorrere a indurre indifferenza e giustificazione dello sterminio.

Comprensibile. Eppure non basta ancora.

Mi chiedo perché, mentre siamo pronti a riconoscere che  “l’olocausto degli ebrei, giustamente, ancora oggi ci commuove e ci ripugna, come se continuasse ad esistere e dovessimo scongiurarlo”, le quotidiane stragi dell’oggi, invece, le deportazioni e gli stermini che stanno succedendo in questo momento intorno a noi, e che faremmo in tempo a scongiurare, lasciano indifferenti tante “persone perbene”. Per non parlare dell’odiosa speculazione di tanti profittatori. Non è l’informazione che ci manca. Tutt’altro.  Sappiamo tutti, perché ce ne informano le istituzioni internazionali preposte, che attualmente ci sono circa 60 milioni di sfollati nel mondo. Che i rifugiati in Europa costituiscono il dieci per cento dell’attuale popolazione di rifugiati nel mondo. Che non meno di un milione di persone ha raggiunto l’Europa attraverso il Mediterraneo e le frontiere di terra nell’ultimo anno. Che ventimila persone sono morte in quindici anni nel tentativo di raggiungerla, forse molte di più. Ma non c’è corrispondenza fra questi numeri e la percezione del dramma. Perché i numeri, ancora una volta, non raccontano le storie, le speranze e le sofferenze di chi annega nel Mediterraneo. Ci sfugge l’essenziale. Il nostro sguardo si posa inerte sui corpi ripescati dal mare e, dopo un breve momento di emozione sollecitato mediaticamente,  non riusciamo a sentire che quanto succede ci riguarda personalmente.

Le burocrazie istituzionali europee per un momento esibiscono contrizione per i morti, poi tornano subito a contendere sulle quote di accoglienza e le politiche  migratorie e di militarizzazione dei confini, tese a  bloccare l’accesso ai vivi. Alle migliaia di donne, di uomini e di bambini in fuga dalle guerre e dalla fame.  In aperta contravvenzione al diritto internazionale codificato, la detenzione amministrativa è diventata la normale risposta all’ingresso o al soggiorno “irregolare” dei richiedenti asilo e dei migranti. Tornano i confinamenti, i muri e i recinti. E c’è fra noi chi applaude.

Con l’odierna “crisi di civiltà” torna ad emergere ciò che di più torbido sta nelle viscere di ciascuno: le  viltà, le ferocie, gli egoismi e i meschini tornaconti. Il morbo del razzismo torna virulento e la serpe fascista nutrita nel seno delle società democratiche torna a mostrare la faccia impunita.  Questi settant’anni sono stati solo una tregua?

All’ipocrisia dei governi “democratici” che parlano di diritti umani mentre chiudono le frontiere alle vittime delle guerre che essi stessi provocano, fa riscontro il cinismo delle destre che alimentano la patologia razzista attraverso l’aperto disprezzo, che trova eco nello spazio pubblico e nei media compiacenti, verso quelle persone che – secondo la retorica xenofoba della Lega Nord – verrebbero a cercare delle “vacanze pagate” in Europa. C’è il rischio concreto – come si è accorto qualcuno più consapevole –  che “gli ipocriti nutrano i cinici e finiscano per mettere nelle loro mani i governi”.

In considerazione di tutto questo, celebro a mio modo  la giornata della memoria, chiedendo che finisca l’orrore dei respingimenti collettivi, che si smetta di selezionare i migranti per categorie come se fossero non-persone e discriminarle. Che si riconosca a loro uguale possibilità di parola – nella lingua che conoscono – di  auto-rappresentazione e auto-narrazione,  negli spazi pubblici e privati di accoglienza.

Vivo in un quartiere della mia città che da qualche decennio si va arricchendo della presenza di persone immigrate da varie parti del mondo, ma prevalentemente dall’Africa e prevalentemente di fede musulmana. Di alcune di esse conosco i nomi e la provenienza, con alcune di esse mi saluto incontrandole, con alcune altre ho stretto amicizia.

Mi ripugna chi sibila tra le fessure e le crepe della coscienza umana la richiesta di epurazione in nome dell’ordine e del “decoro”, insinuando nuove frontiere materiali e immateriali, gabbie identitarie e nazionaliste.

Temo la deriva politica e umana che produce nuovi  muri,  recinti e fili spinati, ritorni ai confinamenti ed  espulsioni  dei corpi indesiderati.

Chiedo che nelle scuole di ogni ordine e grado, oltre a studiare la tristissima pagina storica dell’Olocausto, oltre ad organizzare i viaggi della memoria ad Auschwitz, si leggano e si commentino due testi fondamentali.

Il primo è la Dichiarazione universale dei diritti umani, frutto del grande ripensamento dell’umanità uscita dagli orrori della seconda guerra mondiale, il cui principio fondamentale è che tutte e tutti, ovunque sulla Terra, in ogni momento, hanno diritto all’intera gamma dei diritti umani, che sono universali e indivisibili. E sono garantiti, prima facie, a tutte le persone, compresi i migranti  e profughi presenti in ogni paese, indipendentemente dal loro statuslegale o la lunghezza del soggiorno, senza alcuna discriminazione.

Il secondo testo è la Carta di Lampedusa, scritta e approvata a conclusione di “un processo costituente e di costruzione di un diritto dal basso”, realizzato da molteplici realtà e persone che si sono ritrovate nell’isola dell’accoglienza il 2 febbraio 2014 , dopo la morte di più di 600 donne, uomini e bambini nei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, “ultimi episodi di un Mediterraneo trasformatosi in cimitero marino per le responsabilità delle politiche di governo e di controllo delle migrazioni”. La Carta si fonda sul riconoscimento che “tutte e tutti noi, in quanto esseri umani, abitiamo la Terra come spazio condiviso”;  che “tale appartenenza comune debba essere rispettata, le differenze considerate una ricchezza e una fonte di nuove possibilità e mai strumentalizzate per costruire delle barriere”; che le relazioni tra le persone non dipendono in alcun modo dalla loro origine e/o cittadinanza, dalla loro reale o presunta appartenenza culturale o etnica o religiosa; che è necessario “combattere ogni linguaggio e atteggiamento fondati su pregiudizi, discriminazioni e razzismo, comunque  e ovunque si manifestino”.