Alex Langer, morto suicida, ci ha lasciato con una frase di inestimabile valore: non siate tristi, continuate in ciò che era giusto.

E’ quanto Susanna Schimperna, autrice de “L’ultima pagina”, cita di quel bigliettino datato 3 luglio 1995.

Sembra esserci in chi si sente costretto ad abbandonare la vita ancora uno sguardo, sommesso, con cui suggellare un addio che non si desidera totalmente definente. Per quanto la morte di per sé sia passaggio, stacco, frattura totale, si lascia dietro delle parole, mute, donate allo stupore ed allo sgomento di chi resta e cerca di comprendere quanto è accaduto.

L’ultima pagina in qualche modo condensa i messaggi di cui si sono fatti interpreti i destini di morte di venticinque scrittrici e scrittori, vite che la stessa autrice ha saputo narrare in modo anche originale.

Non so perché, nel senso che non so perché io da sempre sia stata attratta dalle vicende e dalle opere di chi è morto suicida. Non ho alcuna tendenza suicida anche se come molti ho immaginato in momenti estremamente difficili come avrebbe potuto essere.”

La morte sembra godere anche di un fascino letterario: poter spiegare in qualche modo la sua rappresentazione nel suicidio ambisce intingere nell’angolo più oscuro del buio. Afferra il lembo di un’intima, ed al tempo stesso liberatoria riflessione, perché non si vuole rimanere imbrigliati nella paura (della paura?) del suicidio o, ancor peggio, invischiati in un’ambivalenza mal tollerata verso entrambi i corni della questione, il diritto di lasciare non più in grado di coltivare un suo opposto, il dovere di restare.

Addolora anche il pensiero che si possa scegliere di morire.

Dismessa l’arma della razionalità, il mistero che legge il morire come decisione, e non più come l’accadimento usualmente incluso nella percezione della temporalità nella esistenza, diventa più volte insondabile, alimenta inopportuno, ma abituale, il senso di impotenza. Può anche inquietare quando nutrito degli inevitabili “se avessi saputo, se avessi colto, capito, soprattutto se avessi anche solo detto”.

Quanto più un evento risulta incomprensibile tanto più abbiamo bisogno di argomentazioni solide: bisogna stare al meglio nell’assunto di una causa certa, quando non scientifica, quando non logica, soprattutto se umanamente devastante. Così siamo ancora padroni in casa nostra, proprietari di pensieri, emozioni e sentimenti, compagni a noi noti nei quali riconoscerci ed accettarci.

Ogni suicidio rivela un approccio diverso alla intollerabilità del dolore, a propri tempi di coagulazione mentale, ad una sofferenza dell’anima alla cui potenza si decide di arrendersi.

La società – e bene lo argomenta in forma indiretta la scrittrice attraverso i suoi cammei – consente l’autodecisione, ma solo come scelta operata in nome di qualcosa di più grande, alto ed importante. Se qualcuno fa del proprio corpo un simbolo e lo distrugge affinché il mondo faccia suo un grido, anzi un urlo di protesta, allora si muove la pietas, quella compassionevole solidarietà che sa accorare, anche unire. Rimane invece criptico il suicidio per motivi personali, più complesso guadagnare una sorta di comprensione rispetto alle ragioni del martire.

Tra le domande s’insinua il non detto di una paura, quella di una libertà che assolutizzi il libero arbitrio. A prescindere. E l’amore per la vita, tanto invocato, anzi legittimato come naturalmente preservante l’autoconservazione, l’istinto di sopravvivenza e un’umana disposizione al godimento anche in frangenti difficili, non basta a dirsi antidoto al bisogno di morte. Se per Platone non possiamo disporre della nostra vita, afferma sempre in premessa l’autrice, per Voltaire ci si ammazza non in un accesso di ragione e per Forster resta il dolore di chi resta. Indugia nelle pagine il senso di morte non autorizzata, di abbandono immotivato, che Susanna Schimperna,  non paga delle conclusioni alle quali giunge con   narrare attento, alla giusta distanza, sembra consegnare in punta di onesta implicita incompletezza.

Inspiegabile fino in fondo il perché?!

Forse avevo bisogno di scrivere queste storie e solo queste. Come non capisco cosa abbia guidato la mia scelta, non capisco cosa mi abbia spinto a ritenere il mio compito concluso.

Se qualcuno, dopo aver letto questo libro, penserà di aver trovato una risposta e vorrà comunicarmela, gliene sarò veramente molto grata”.

Susanna Schimperna, L’ultima pagina Da Vladimir Majakovskij a David Foster Wallace, da Cesare Pavese a Virginia Woolf, storie di scrittori che hanno deciso di togliersi la vita, Iacobelli editore, Roma, 2020