Il 1° febbraio 2013 Nazma Khan, statunitense originaria del Bangladesh, lanciava il World Hijab Day, iniziativa dai tratti ambigui supportata dalle frange più tradizionaliste delle comunità islamiche, nella quale si afferma una sorta di orgoglio dell’indossare il velo o le altre più pesanti coperture del corpo delle donne nel nome della libertà religiosa, un messaggio rivolto in particolare ai paesi europei, come la Francia, che non adottano politiche multiculturali, diffuse invece in Gran Bretagna e Germania.

In occasione dell’istituzione della giornata Ali Khamenei, una delle massime cariche politiche iraniane aveva scritto su twitter: “Nella logica islamica il ruolo della donna è inserito in una cornice precisa. Una donna islamica è colei che è guidata dalla fede e dalla castità. Mentre oggi c’è un quadro deviante, un modello di donna che è offerto dall’Occidente. Promuovendo un codice di abbigliamento modesto (l’hijab) – ha continuato l’Ayatollah – l’Islam ha bloccato la tendenza che vuole portare le donne a quello stile di vita deviante. Hijab significa immunità, non restrizione”.

Un’affermazione che dovrebbe far riflettere chi, magari con intenti antirazzisti, si applica a minimizzare la portata simbolica politica dell’uso del velo.

Da quell’anno la risposta del mondo laico e femminista è stata esplicita; nel 2013 l’attivista di origine iraniana, scrittrice, udiosa e animatrice della Secular Conference Maryam Namazie avviò la campagna Secularismismy right: freedomismy culture, a supporto della totale separazione tra Stato e fede religiosa, che resta il grande problema dei paesi a maggioranza islamica. Inna Shevchenko e Pauline Hillier nel libro Anatomia dell’oppressione analizzano il fondamentalismo religioso sottolineando come tutte le religioni rivelate usino il corpo delle donne come indicatore della loro visione relazionale tra i generi, sancendo e istituzionalizzando la disparità di potere proprio attraverso il  dress code nello spazio pubblico, a partire dai capelli.

“È la testa delle donne che riceve il primo forte schiaffo. Da sola essa condensa una quantità di regole e morali ingiuste e assurde, dettate unicamente dal cristianesimo, dall’ebraismo e dall’Islam. Per controllare la testa delle donne le religioni non trascurano nessun aspetto: se nei loro occhi brilla l’intelligenza esigono che li abbassino, se nei loro sorrisi si leggono la gioia e la soddisfazione loro le reprimono, se fra i loro capelli soffia il vento della libertà e dell’indipendenza li devono nascondere, se nei loro cervelli si formano pensieri loro li formattano, se la loro bocca esprime la loro opinione loro la imbavagliano e se le loro orecchie registrano il sapere, loro le tappano. La testa delle donne viene passata al setaccio dall’esterno all’interno”.

La forza delle campagne laiche delle attiviste femministe avrà nel 2021 un elemento nuovo, il film Women Leaving Islam, lungometraggio prodotto dal CEMB, definito dalle autrici “a challenge to#WorldHijabDayand religiousmodestyasrules”, una sfida alla giornata del velo e alle regole religiose sulla modestia femminile.

Women Leaving Islam sarà visibile alle 18 del 1 febbraio su questo canale youtube

Nel film sono sei le vocie i volti delle donne che raccontano il loro percorso di abbandono dell’Islam nei loro rispettivi paesi d’origine, e la violenza subìta per avere infranto le regole imposte dalla religione, ribellione costata loro perdite, discredito sociale, posizione lavorativa, reputazione e qualche volta anche la custodia di figli e figlie.

Nonostante il rischio che hanno corso e che corrono nell’esporsi al racconto di critica ed esercizio di laicità e libero pensiero le sei protagoniste, Fauzia Ilyas, Fay Rahman, Halima Salat, Mimzy idz, Rana Ahmad and Zara Kaynon raccontano solo di fatica, oltraggio e minacce ma anche di speranza, gioia e libertà, e di quanto abbiano guadagnato, nonostante le perdite e i sacrifici, nell’essere libere di esprimere il proprio pensiero critico nei confronti delle imposizione religiose islamiche, che proprio sul corpo delle donne basano il grande potere e controllo sociale e politico.

L’evento cinematografico del 1 febbraio, che le attiviste invitano a supportare con l’uso degli hashtags #WomenLeavingIslam #FromHijabToFreedom #NoForcedHijab #NoHijabDay #FreeFromHijab‘to challengereligiousmisogyny’, come sfida alla misoginia religiosa sarà preceduto dalla discussione on line il 29 gennaio alle 17, Hijabissexist and misogynist con le attivisteFaridehArman, Jenny Wenhammar, Lilith Khanoum, MaryamNamazie, Mina Ahadi, Rana Ahmad and Shahad.

L’artista Victoria Gugenheim, più volte invitata alla Secular Conference ha lanciato un videonel quale spiega come partecipare simbolicamente all’evento social dipingendo sul corpo una colomba che tiene nel becco un hijab