Il dolore ha un suono, anche un colore, consuma, disarma, annienta. Talvolta non sembra placarsi in modo compiuto nonostante lo scorrere del tempo.

Ha bisogno di conforto, di testimonianza di senso e di condivisione.

E’ questo il filo sottile che con garbo appassionato pare tenere fra le dita Carla Baroncelli nel colloquio telefonico avuto con lei alla fine di giugno.

Mi parla del suo Ombre, un testo che raccoglie le udienze del processo che ha visto imputato Matteo Cagnoni, poi condannato all’ergastolo per aver ucciso la moglie Giulia Ballestri.

Sono convinta che l’incontro con un libro e con tutto ciò che evoca possa tradurre uno spazio circolare: abbraccia e supera quanto la narrazione ha già saputo concentrare.

Ombre è un libro politico, è voce di una comunità che cerca di ricomporre sentimenti indicibili, segnale e simbolo di un processo che affianca la necessità di un diverso procedere rispetto alla mera scansione processuale.

Molto attenta la giornalista ravennate all’uso del lessico, con cui abitualmente si fotografano i fatti offrendone, poi, un’interpretazione, magari dal punto di vista di.

È certa, soprattutto, che esistano verità processuali su eventi talmente feroci da risultare inguardabili: cercarne non “un perché” dal punto di vista giudiziario ma “il perché” al fine che giustizia si compia, senza accanimento giustizialista, impone un’operazione complessa, delicata quanto necessaria.

Lo scrive nel libro e me lo conferma nel colloquio.

“Ben gli sta, tre ergastoli gli dovevano dare, uno per ogni figlio (…) in miniera a lavorare lo manderei, la catena al piede con la palla al piombo“, così mormorava la vox populi.

Per l’autrice un femminicidio necessita, invece, di una profonda, inesausta, ricerca di senso: tutte potremmo essere Giulia, tutte potremmo essere le vittime di una cultura patriarcale.

Doloroso poi parlare dei figli che la giornalista ha una certa ritrosia a definire orfani speciali, preferendo la più netta definizione di figli di femminicidio.

Diventano oggetto di una crudeltà incomprensibile per un figlio, vengono costretti dallo stesso evento ad essere combattuti tra il provare affetto per la madre oppure nutrirlo per il padre.

Non troveranno facilmente pace, sarà un tarlo, e potrà rivelarsi corrosivo e sfiancante quel sentimento altro generato dalla consapevolezza di aver amato il proprio padre pur stando dalla parte della madre.

Rachele, Leonardo e Giorgio, tantissimi i nomi di coloro che questo dolore crudele hanno provato, hanno dentro di sé una frattura non sanabile. Profondissima, almeno quanto intensamente devastante sarà il vissuto collegato al dover sondare una sofferenza per poter dare voce all’indicibile.

Sul dolore Carla Baroncelli si spende con grande compostezza: un dolore può anche essere lenito, quasi addomesticato, anche guidarci alla percezione di un sentimento nuovamente soffribile.

L’odio no, alimenta solo dubbi e corrode. Non è detto dunque che fratelli e sorella potranno essere d’accordo. Imprevedibile sarà comunque il futuro di questi bimbi, due dei quali già dei ragazzini.

Giulia è stata lasciata sola, conclude alla fine del colloquio la giornalista, perché i panni sporchi vanno lavati in famiglia e le donne – se diventano troppo unite – sono poi delle streghe.

Desiderare una forma di giustizia vera significa, invece, partire con un passo in cui la giustizia non abbui col volto di crudeltà e rivendicazione. Dobbiamo, piuttosto, rimboccarci le maniche, perché il bisogno di giustizia parte da molto lontano ed intende andare avanti comunque, non solo svuotando la pulsione o esaurendo un’emozione.

                                   

Carla Baroncelli, Ombre di un processo per femminicidio. Dalla parte di Giulia, Iacobelli, Roma, 2019