A Marina Pivetta questo libro sarebbe piaciuto perché parla anche di lei e del suo percorso di studi e politico a Trento, ma non è questo il motivo per il quale gli si è attribuito il premio delle Redazione del Paese delle donne. L’aver focalizzato e attraversato quella che è ad oggi una realtà, Trento e il Trentino, conosciuta a pochi -quelle che l’hanno vissuta in prima persona e le studiose di storia del femminismo- quasi assente nei luoghi dove tutto è accaduto, è un grande merito di questo lavoro che mette al centro il percorso, lungo quasi venti anni, del femminismo vissuto in quella città, luogo anticipatore della nascita del femminismo italiano. E la storia di una Università Sociologia, prima in Italia, ricca di conflitti, di occupazioni, di politica, ma anche di scambi nuovi con alcuni docenti, ad esempio Chiara Saraceno, dalla quale sono uscite giovani donne che hanno fondato il primo Collettivo: Cerchio Spezzato. Così come aver costruito connessioni continue tra quello che accadeva a livello locale e quello che succedeva in altre aree del paese e non solo, ed aver messo in luce gli scambi che si creavano con altri parti del movimento, le reti che si costruivano e la presenza importante di femministe, uscite da Sociologia, nei luoghi di elaborazione di teoria e pratiche principalmente a Roma e a Milano.

Altro punto, di grande valore, aver condotto la ricerca con due metodologie: storica e sociologica che permettono di intrecciare e costruire un racconto ricco ed emozionante di contesti di riferimento, pensiero e pratiche. La storia è appoggiata ad archivi pubblici e privati oltreché su testi di vario genere. Il pensiero si è avvalso di libri, saggi ed articoli che partono dalla “questione femminile “e giungono alle recenti scritture sul e del movimento/i femminista/i. La pratica diventa racconto prevalentemente sulla base di testimonianze di quaranta donne -dieci di queste testimoni privilegiate- cercate, trovate ed a lungo intervistate sulla loro vita, sulle scelte politiche, sulle pratiche intraprese con altre donne, su come vivono il presente, che fanno, continuamente, da controcanto alla storia di quel periodo. Le pratiche rappresentano anche “il baricentro” del pensare: “l’autocoscienza, il corpo, lo spostamento del confine tra personale e politico non solo e non tanto come questione teorica ma come metodo che mette a soqquadro l’esistenza privata e pubblica” così scrive l’autrice nella sua introduzione. Ed a proposito di lei -orgogliosamente figlia e nipote di femministe- laureata in Sociologia in quella Università, che tanto è presente nel racconto ed ha segnato le vite e le scelte di tante donne, il dichiarare che il suo lavoro “è un racconto posizionato, carico di densi portati affettivi” mantenendo però il rigore necessario, è stato considerato anche dalla giuria un valore aggiunto.

Altro elemento al quale è stato dato un significativo riconoscimento è il lungo lavoro di ricerca sui materiali di archivio sia pubblici, sia privati dell’epoca che, come tutt* sappiamo, spesso richiedono grande impegno per collocarli nel loro tempo e l’uso che ne viene fatto: con pezzi di documenti, volantini, fotografie e manifesti, capaci di trasmettere a chi legge il senso di quello che accadeva.

E così le molte pagine di bibliografia, i cui testi, di vario genere, nutrono, in modo più importante, i primi due capitoli del libro: Prima della rivoluzione: società e politica verso il ’68 e Atlante minimo del femminismo italiano ma sono presenti in tutto il percorso.

Infine il linguaggio utilizzato, ma è il caso di dire “i linguaggi” infatti a quello usato dall’autrice, molto colto ma sempre scorrevole anche nei passaggi più complessi, si incrocia quello delle diverse donne: ognuna con la sua lingua, la sua storia, la sua memoria ma dove il “noi” risuona anche oggi.

Elisa Bellè: laureata in Sociologia dell’organizzazione a Trento, attualmente lavora come ricercatrice a Sciences PO a Parigi, già autrice di diversi saggi sul movimento femminista a Trento e nel Trentino.