curaAnnalisa Marinelli, che vive da tempo a Stoccolma, è venuta in molte città Italiane a presentare il suo ultimo libro: “La Città della Cura”. Non sono stata scelta a caso dall’autrice per presentare a Napoli il suo libro.  Gran parte del mio lavoro filosofico, a cominciare dal mio primo libro “Il Pensiero Parallelo” (coautrice Clara Fiorillo), è stato in collaborazione con Architette e Urbaniste. Ho conosciuto Marinelli nel 2002,in una coincidenza favorevole: dovevo fare la relazione iniziale di un Convegno internazionale, organizzato dal Dipartimento di Urbanistica “Donne e città”(Urbanima), fondato da Teresa Boccia con la mia collaborazione, e Maria Liguori, che ha creato all’interno della sua casa editrice una collana di Pensiero della differenza, mi mandò il suo primo testo  “Etica della Cura e del Progetto”.  Per quella relazione utilizzai anche un articolo di Ina Pretorius ,edito  sulla rivista Via Dogana, sulla Competenza d’essere, nel quale ella  sosteneva che le attività di cura erano “competenze”  alla pari con quelle tecnico-scientifiche. La Competenza d’essere, a me il cui modello adolescenziale era stata Simone De Beauvoir e la sua critica al ruolo costrittivo di madre, faceva meno problema della parola Cura che anche Ina Pretorius ,solo oggi, nomina esplicitamente nel titolo del suo ultimo libro “L’ Economia è Cura”. Lessi il testo di Marinelli soprattutto  perché parlava di donne e città, argomento del Convegno, per il quale mi stavo preparando. Ma con mia somma meraviglia, seguendo il percorso di analisi del linguaggio che la Marinelli conduceva nel libro che si concludeva con una vero ribaltamento simbolico della parola Cura, da mera attività istintiva e gratuita del mestiere di madre a paradigma della città, mi riconciliai con la categoria di Cura.

Sono passati più di 10 anni e nel frattempo anch’io svolgo una attività di Cura: sono una counselor filosofica, ho scritto un libro sulla Cura (“La Filosofia come Cura, K. Jaspers filosofo e medico”) e di nuovo sto a confrontarmi con Ina Pretorius, che da poco ha pubblicato (tradotto da Adriana Maestro) “L’Economia è Cura”, e Marinelli, con questo secondo libro. La cosa curiosa, ma spesso accade, è che  fanno entrambe  un percorso  di rivalutazione della cura negli stessi anni senza mai incontrarsi, non si conoscono, ma non importa. Per entrambe le autrici la Cura esce dalla segregazione dello spazio domestico e diventa un modello universale, tale da far dire ad Ina che è l’Economia nel suo complesso ad essere Cura e ad Annalisa che la Cura è un paradigma a cui tutta la città deve adeguarsi.

Ma veniamo più specificatamente al testo di Marinelli. Questo è un testo che, pur muovendosi all’interno di un settore specifico dell’urbanistica, si può ascrivere al Pensiero della Differenza sessuale, segue l’imput della sessuazione dei saperi  di cui il Pensiero della differenza ancora si nutre. L’approccio al tema della cura è lo stesso, l’avvistamento, direbbe Angela Putino, è quello, e lo ritroviamo sia nel capovolgimento simbolico che Marinelli opera della parola cura sia nell’analisi del welfare, e poi nel rifiuto dell’utopia e nell’uso di un registro di discorso nel quale “immanenza” e “trascendenza” non sono applicate antinomicamente.

Il punto focale del testo che ha come secondo titolo una provocazione (“Ovvero perché una madre ne sa una più dell’urbanista” )è duplice :”Il lavoro di cura che offre uno sguardo privilegiato sulla realtà; la cura come paradigma culturale e di governo che esce dalle case e offre strumenti particolarmente  necessari alla città contemporanea”.

Marinelli arriva, però, al focus del discorso, dopo  aver  fatto un’analisi storico-filosofica della cura, una storia delle esperienze e delle proposte  femminili nel campo,  una analisi attenta dei meccanismi della società  moderna e la descrizione della sua esperienza di vita a Stoccolma. La società moderna, per Marinelli, è una società che non pratica la cura, perché si basa  su una sua originaria concezione, relegata nel domestico, che, con l’avvento del mercato e delle logiche produttivistiche ad esso legate, ne acuisce la marginalità e ne fa una continuazione della funzione materna. Ma paradossalmente proprio perché la Cura si lega alla gratuità della funzione materna, essa oltre “a possedere un altissimo patrimonio relazionale”,  diventa anche “un modello di scambio alternativo, non mercificato”.

Marinelli, muovendo da  alcuni assunti sia del femminismo che della ecologismo (“due innovazioni che nella seconda metà del novecento che hanno modificato radicalmente il nostro modo di guardare il mondo”),  denuncia il fatto che dietro la rimozione della Cura agisca una rimozione di dimensioni più profonde come quella della vulnerabilità e coscienza del limite. Tiene però  a precisare che la vulnerabilità, non è un giudizio di valore negativo o una visione pessimistica della realtà , ma è la dimensione della esistenza del vivente umano in tutte le sue forme, dalla morfologia fragile del territorio a quella non meno fragile dell’umanità: potremmo definire sotto questo punto di vista la vulnerabilità come un “essere in situazione”. La società moderna non guarda alla vulnerabilità perché si fonda su un modello sessista di maschio, bianco adulto, nel pieno della sua energia fisica, un modello escludente a cui Marinelli oppone la materialità dei corpi con i loro specifici limiti, modello includente, includente anche degli uomini ,non solo delle donne, tra i soggetti che possono offrire cura; ed è proprio questo secondo modello a fare di una società  una  Civiltà della cura, passaggio necessario per realizzare una Città della Cura. Il termine Città evoca la parola Utopia: quante città perfette, descritte  da filosofi, sono state mere utopie! Ma non per Annalisa che vive a Stoccolma. Anche la parola Rivoluzione che spesso è abbinata alla parola Utopia viene ripudiata. Non serve la rivoluzione per realizzare la città della cura, basta “una trasformazione attuata con quello che c’è, con la creatività, poco alla volta, dettaglio dopo dettaglio, correggendo il tiro con pragmatismo ma senza mai perdere di vista il senso del percorso”. Siamo, quindi, di fronte ad una visione in cui immanenza e trascendenza non sono viste dicotomicamente.

“La cura quotidiana, scrive Marinelli, non è altro che la manutenzione della vita: ripetendo quotidianamente gli stessi gesti, produce una crescita progressiva, accompagna la trasformazione. Similmente la cura della città opera attraverso la manutenzione ordinaria, un continuo ridisegnamento e adattamento alle istanze plurali della vulnerabilità come nella metafora del funambolo per il quale l’equilibrio è il risultato di uno sguardo complessivo fisso all’obiettivo e una contemporanea  e continua ricerca del centro attraverso minuscoli movimenti di aggiustamento il suo stare in equilibrio”.

Per Marinelli, che vive da tempo a Stoccolma, la realizzazione della Citta della cura è  possibile: Stoccolma è una città che incarna la Civiltà della Cura, ed è una città reale. Il miracolo è stato possibile perché il femminismo lì si è sporcato le mani ed è entrato in relazione con il Governo. In questa sottolineatura c’è una critica sottile ma anche un incitamento verso il femminismo italiano a non estraniarsi dalla politica. Il libro, come dicevo prima, si muove continuamente tra un registro immanente  e un registro trascendente. C’è un continuo fluire dall’esperienza pratica al paradigma generale: Marinelli parte dal piano dell’esperienza e conclude con l’esperienza. Il testo,infatti, termina con una serie di suggerimenti, una specie di “lista della spesa” per governanti di ogni livello, da quello centrale a quello locale. Questo libro cade a proposito: stiamo in campagna elettorale nella maggiori città italiane, sarebbe utile che i candidati a sindaco  lo comprassero e lo studiassero attentamente.

Annalisa Marinelli, LA CITTA’ DELLA CURA, edizioni LIGUORI, Napoli, pp. 141 e. 14,99

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