Oggi, all’indomani della strage reclamata dall’Isis a Bruxelles, in un’Italia tapezzata da Je suis Bruxelles (formula entrata nel luttuoso linguaggio delle condoglianze pubbliche e private e che sembra essere l’unica risposta autenticamente corale di un’Europa alle prese con il suo passato, il suo presente e il suo futuro), si è svolta alle Fosse Ardeatine la commemorazione delle 335 civili e militari vittime dell’eccidio consumato dalle truppe di occupazione tedesche giovedì 23 marzo 1944 in rappresaglia per l’attentato di Via Rasella  in cui i Gap romani causarono, con una bomba, la morte di 33 soldati del reggimento Bozen dell’Ordnungspolizei.

Le antiche cave di pozzolana sulla via Ardeatina in cui avvenne l’efferato massacro e l’occultamento delle spoglie delle vittime è oggi un sacrario, un monumento nazionale in cui sfilano le famiglie dei sopravvissuti, autorità, scuole. Sfila anche una storia, quella partigiana, che oggi più che mai è materia viva del passaggio di testimone e di democrazia da una generazione all’altra ma che oggi più che mai pone la riflessione su cosa  sia una “guerra”, su cosa si possa dire “guerra”. Declinarla sono in presenza di eserciti contrapposti su un campo di battaglia pare limitativo e contro il senso comune. In ogni “guerra” delle innumerevoli che si possono citare, ci furono stragi di civili, il dolore, il lutto, la malattia, lo stupro anche etnico, la rapina, la distruzione delle persone, degli animali,  dei beni, dei luoghi sacri ai vari culti.

“Per coerenza verso il senso che dato alla mia vita, per l’amore che porto a quanti hanno lasciato la loro giovinezza a marcire nella terra per salvare l’onore della patri, per rievocare i tanti compagni di cui nessuno scriverà, uomini e donne che furono protagonisti di episodi stradinari, sento quasi come un dovere fissare i ricordi personali che coincidono con gli avvenimenti di cui sono stata testimone e, in piccola parte, anche protagonista”. Così scriveva Carla Capponi, Medaglia d’Oro della Resistenza per essere stata parte attiva nell’attentato di Via Rasella nella Roma ancora saldamente in mano alle truppe del Terzo Reich. Un episodio che segnò quello e tutto il periodo successivo della vita di quella figlia della borghesia, colta ed emancipata, che nell’autobiografia (Con cuore di donna, Il Saggiatore, 2000), ripercorse il regime mussoliniano, il secondo conflitto mondiale, la clandestinità e i gruppi di fuoco dei Gap “a testimonianza del coraggio di tutti gli uomini e le donne comuni che hanno lottato per un ideale di libertà.”

“Marzo era cominciato male, un mese maledetto. Il tre, l’uccisione di Teresa Gullace a viale Giulio  Cesare. Il sette la fucilazione di dieci partigiani tra i quali molti compagni del Gap (….). il nove l’azione di via Claudia con la distruzione del deposito di carburante di nazisti; non vi furono morti ma fu chiaro che i nazisti usavano nascondere i materiali bellici e il carburante nei garage, nei magazzini, nelle cantine delle abitazioni civili, cosa che riempì di sdegno tutto il quartiere (…) avevamo addosso una taglia di cinquantamilalire”, una fortuna al tempo. (…) La scelta di attaccare la colonna a via Rasella fu molto studiata; questo (luogo) aumentava le opportunità di successo e di recare meno danno possibile alla popolazione civile.”

In merito all’accusa di non essersi autodenunciata insieme ai compagni del Gap per evitare la rappreseglia, Carla Capponi affermò che non fu mai posta loro quest’alternativa:

“Se avessero posta questa condizione, avrebbero certamente msso in crisi la nostra coscienza ma non avrebbero incrinato le leggi che regolavano il comportamento di fronte al nemico. La nostra sfida era: cercateci, impegnatevi nello scontro con noi ma non infierite con chi non è in grado di difendersi, di combattere. Per noi, quell’ordine assassino era un crimine contro il quale occorreva mobilitarsi, attaccare con maggiore durezza e determinazione. L’annuncio che l’ordine era già stato eseguito, al termine del breve comunicato, suonava come una sfida: non avevano scritto ‘la sentenza era stata eseguita’ perché nessun tribunale avrebbe sancito una condanna così efferata, contro ogni legge, contro ogni morale, contro ogni diritto umano”.

L’indagine effettuata dopo la Liberazione scoprì che solo tre delle vittime delle Fosse Ardeatine erano state condannate a morte dal tribunale tedesco. L’occultamento dei cadaveri, il lasciare le famiglie senza notizie, aggiunsero nuova crudeltà all’evento.

Sergio Mattarella, appena eletto a Capo dello Stato, si era recato alle Fosse Ardeatine con gesto e parole altamente simboliche e nella visita odierna ha dichiarato: “L’alleanza tra  nazioni e popolo seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario di cui questo luogo è simbolo doloroso. La stessa unità in Europa e nel mondo saprà battere chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore.” (Ansa)