Daniela Rossini recensisce il libro di Beatrice Pisa, Infanzia abbandonata, orfani e pupilli della nazione in Italia (1915-1920) edita da Biblink, Roma 2023.


Lo scopo principale del volume di Beatrice Pisa è quello di esaminare le profonde trasformazioni portate dalla guerra nelle culture e quindi nelle forme di intervento relative all’assistenza all’infanzia e alla maternità in Italia. Da un lato, tali trasformazioni erano state imposte dalla guerra, che aveva creato un vero e proprio stato emergenziale per il soccorso all’infanzia, ma dall’altro scaturivano anche dall’intenso dibattito internazionale su questi temi a cui l’Italia partecipava. Le nuove idee spingevano verso la professionalizzazione della cura e assistenza all’infanzia e maternità, uno dei campi principali in cui si era sviluppato il riformismo transatlantico. In questi anni, quindi, assistiamo al passaggio dell’assistenza da attività prevalentemente caritatevole a opera assistenziale strutturata, spesso promossa da una sinergia tra istituzioni e soggetti sia pubblici che privati.

Furono principalmente tre, infatti, i protagonismi che stimolarono tali radicali trasformazioni. Da un lato ci fu l’azione di istituzioni pubbliche liberali, che si impegnarono in un interventismo fino ad allora poco voluto e praticato: emergeva, infatti, una nuova visione dei doveri statuali per l’assistenza verso settori della società civile colpiti dalla guerra (basti pensare alla figura di Ubaldo Comandini, esaminata nel volume). In secondo luogo, si era attivato il mondo dei medici, clinici e direttori di brefotrofi, mossi anche dalle dimensioni crescenti e tragiche dei fenomeni. Infine, un ruolo cruciale era giocato dall’area del volontariato laico, all’interno della quale importante era l’azione promossa dalle donne e dalle loro organizzazioni locali e nazionali, fra cui in particolare il Consiglio Nazionale delle Donne Italiane (CNDI), l’Associazione della Donna (AdD), l’Unione Femminile Nazionale (UFN), l’Alleanza Femminile.

La situazione di partenza era arretrata e desolante. Per averne un’idea basti pensare all’utilizzo ancora diffuso della ruota come forma di ricezione dei neonati abbandonati, all’alta mortalità infantile che nei brefotrofi registrava valori medi di un terzo dei bambini accolti, nonché all’impiego frequente del baliatico mercenario. Questo quadro è analizzato nella prima parte del volume, insieme al drammatico impatto della guerra su di esso. Nelle tre sezioni centrali del volume l’analisi si concentra sugli anni della guerra che produssero un caleidoscopio di iniziative diverse rispetto all’infanzia, istituzionali e private, locali e nazionali, guidate da nuovi interventi legislativi o anche dall’attività di associazioni e singole personalità. L’ultima sezione, infine, si concentra su alcuni aspetti basilari dell’immediato dopoguerra, come la conferenza di pace, l’internazionalismo wilsoniano e la nuova organizzazione politica sovranazionale da essi originata che, insieme a importanti organizzazioni filantropiche, fecero del bambino un soggetto internazionale.

Per mettere a fuoco il quadro italiano e le caratteristiche originali di alcune esperienze, il volume descrive alcune iniziative locali di particolare interesse. È nelle città che esse si concentrano, mentre le campagne ne rimangono pressoché sprovviste.

Vediamo così analizzata la situazione di Milano, che vantava una radicata tradizione di riformismo di impronta socialista promossa sia dalle istituzioni cittadine che dalla presenza di una generosa e lungimirante beneficenza privata. Pensiamo, ad esempio, all’amministrazione della Giunta Caldara e all’azione di organismi come la Società Umanitaria e l’Unione Femminile. In particolare, lo stesso sindaco Emilio Caldara presiedeva il settore dell’assistenza ai figli dei combattenti, il quale, con l’arrivo massiccio dei profughi dopo la rotta di Caporetto, riusciva ad assistere ben diecimila bambini. L’Unione Femminile, inoltre, che si avvaleva del contributo di figure femminili di primo piano, come Sibilla Aleramo, Ada Negri e Ersilia Majno, si distingueva nell’attenzione al lavoro femminile e nell’assistenza alla maternità e infanzia.

A Bologna, lo scoppio della guerra aveva segnato il passaggio dall’amministrazione clerico-moderata a quella socialista: ciò aveva portato a un netto cambiamento nell’assistenza all’infanzia, in cui ora emergevano personalità e organizzazioni femminili laiche. Già nell’agosto 1914 Carolina Isolani, infermiera e poi ispettrice della Croce Rossa Italiana, aveva promosso piani di preparazione al conflitto che comprendeva l’addestramento di telegrafiste, tramviere e soprattutto infermiere, nonché la creazione di commissioni per il ricovero di migliaia di bambini, l’assistenza alle puerpere, e l’organizzazione di cucine economiche nei rioni più popolosi. La Federazione emiliana del CNDI, molto attiva nell’assistenza cittadina in generale, si distingueva anche nell’assistenza all’infanzia, con la creazione di asili in varie zone della città che furono in grado di accogliere i primi cinquecento bambini già il giorno dopo la mobilitazione nazionale. Grazie all’attivismo della nuova Giunta, gli asili comunali passarono da una decina nel 1914-1915 a una quarantina nel 1917-1918. A ciò si aggiungeva la creazione di colonie estive, educatori, programmi per refezioni e fornitura di vestiario, cure mediche, nonché iniziative per la lotta alla tubercolosi.

Beatrice Pisa descrive l’assistenza all’infanzia in altre città, quali Roma, Firenze e Palermo, nelle quali centrale era il contributo femminile spesso attraverso associazioni come il CNDI, l’AdD, o anche l’Alleanza Femminile nel caso di Palermo. A Napoli, l’attivismo di Antonia Persico Nitti si associava all’azione del pediatra Giuseppe Tropeano, che dal 1918 dirigeva un ospedale di 400 letti per i piccoli profughi, che a partire da Caporetto giungevano a migliaia insieme alle loro famiglie. Questa struttura diventava il primo ospedale pediatrico della città e di tutto il meridione. Tropeano promuoveva molte iniziative e nel primo dopoguerra si apriva all’internazionalismo con l’invio di una lettera alla Società delle Nazioni. Da ricordare, inoltre, nell’ambito della presenza pervasiva del mondo cattolico, l’interesse di don Sturzo per l’assistenza agli orfani di guerra, che si esplicò soprattutto nella creazione di un’Opera Nazionale attiva in molte città.

Una menzione particolare va dedicata all’interessante ricostruzione dell’attività a favore di bambini orfani, rifugiati o in genere bisognosi promossa da Paola Lombroso, primogenita di Cesare Lombroso, a Torino, sostenuta dalla comunità ebraica della città. Lombroso, nota giornalista per l’infanzia e artifice dell’iniziativa delle bibliotechine circolanti per ragazzi, riusciva a organizzare un sistema di case per l’infanzia, spesso in ville con parchi messe a disposizione dai proprietari, per accogliere i piccolo ospiti sempre più numerosi. Riusciva facilmente e in maniera quasi prodigiosa a mobilitare energie, auto-finanziarsi e ottenere le risorse necessarie a riadattare, arredare e gestire le ville, nonché a vestire, nutrire e curare i suoi protetti. A volte, anche con sua meraviglia, riceveva larghe donazioni, come nel caso della Croce Rossa Americana, sollecita e generosa negli aiuti in questo e in altri casi simili presenti in zone diverse della penisola. Lombroso riuscí ad aiutare in questo modo centinaia di bambini bisognosi: alla fine della guerra erano funzionanti quattro case, Villa Moris, Villa Becker, Villa Beria e Villa Gioia.

Le fonti utilizzate da Pisa sono originali e poco frequentate, come i bollettini, le lettere, i giornali delle varie associazioni e iniziative analizzate, oltre all’ampia bibliografia secondaria. Il volume ci fa conoscere in modo organico uno spaccato della Grande Guerra poco conosciuto ma di grande impatto sociale. Esso è capace di farci toccare con mano una delle realtà più tragiche e dirompenti, ma anche più nuove, della guerra. Il volume, quindi, è una benvenuta aggiunta agli studi sulla Grande Guerra in Italia.