Elettra Deiana a una manifestazione
Elettra Deiana a una manifestazione

A noi donne capita talvolta di venire  interpellate su una questione che riguarda la nostra storia: “Ma le donne che fanno? Dov’è la loro differenza? In che si distinguono dall’operare degli uomini, soprattutto in quella sfera delle istituzioni e del potere pubblico che hanno voluto occupare?” Per quel che mi riguarda, la ritengo una domanda retorica, anche un po’ insopportabile,  di quelle in cui riecheggia una suggestione mitologica del femminile, l’dea di una qualità ontologica del loro essere donne, che dovrebbe indurle a farsi portatrici di una innata vocazione salvifica. C’è stato un periodo – anni ottanta/novanta del secolo scorso – in cui questa attitudine del pensiero femminile e femminista – un certo femminismo – era molto diffusa. Ora meno, perché le donne sono andate avanti, hanno sbaragliato ostacoli, conquistato postazioni, ci sono insomma, anche se  i problemi sono ancora tantissimi a, a cominciare dallo stesso paradigma della parità, il cui deficit, sul piano dell’applicazione, rivela obliquamente le molte contraddizioni di cui quella domanda retorica  è carica. Oggi abbiamo in Italia il parlamento più rosa della storia nazionale, un esecutivo con molte donne, alcune delle quali collocate in ministeri chiave del governo del Paese,  e con la cruciale riforma della Costituzione – controriforma la chiamo io – affidata a una donna. Molto giovane, spigliata e attraente, che ha sfidato tutti – soprattutto la larga schiera di costituzionalisti contrari –  e alla fine ha potato a compimento – salvo il parere contrario dell’elettorato in sede referendaria – l’incarico che le  era stato affidato dal leader.

Il Parlamento è  quindi un ottimo osservatorio per capire e valutare  che cosa significhi questa presenza e se effettivamente cambi qualcosa.  In realtà il cambiamento è più di immagine che di sostanza, e la presenza di tante donne si riduce spesso  a una questione di quote, che continuano a essere l’assillo delle donne, in una fase per altro in cui la democrazia langue – viviamo una fase di post democrazia – e le quote, da questo punto  di vista, non hanno certo prodotto scarti positivi. Oltre alle quote funziona oggi, a favore delle donne, anche la mossa politically correct del capo politico di turno. Visto che guadagnare consenso elettorale tra le donne ha dei costi, visto che le donne hanno fatto passi avanti per esser presenti, visto che molti preconcetti misogini, che, pur continuando a esserci, non hanno bloccato questa avanzata, la scelta di prevedere il rosa nelle squadre politiche ha ormai un notevole peso nelle strategie di conquista del consenso. Ma, alla fine,  tanta presenza  femminile può ridursi a un emendamento estetico, agito da di chi vuole giocarsi a tutto campo la carta donne come segno del rinnovamento e del cambiamento. Tutto questo è  inevitabile perché mancano significativi percorsi di autonomia e di autonoma strategia politica da parte delle donne. Manca l’esercizio di esperienze condivise, che promuovano nelle donne la capacità e il coraggio di assumersi in prima persone le responsabilità, lo spirito critico, la capacità di distanziamento dal gioco imperante della politica politicante, della politica spettacolo, della politica convenienza di vita. Così tutto si riduce quasi sempre e un gioco di ruolo, del tutto intercambiabile, tra uomini e donne. Con le donne che, come da copione,  continuano a stare più al seguito che in testa e appaiono più animate da spirito di servizio che spinte da capacità di farsi leader di scelte autonome. Oppure, alcune, alzano il tiro sul terreno del potere, mutuandone le modalità dalla parte maschile di riferimento e stando attente, nelle stesso tempo, a mantenersi entro i confini stabiliti dal capo, aspettando il proprio turno per fare il passo successivo.  Dal ventennio di Berlusconi a oggi questa tendenza alla femminilizzazione della politica partitica e istituzionale ai vari livelli ha fatto dei significativi passi in avanti. Ma di pari misura si è depotenziato il senso di questa presenza, la qualità della differenza politica che  dovrebbe produrre e invece non produce. E questa è  anche una tendenza più generale, le cui tracce sono individuabili  un po’ ovunque, sia pure in forme diverse e, altrove, con eccedenze più forti e significative di forza femminile rispetto allo schema italiano.

La storia di Illary Clinton, per esempio, oggi in lizza per la Casa Bianca, presenta in modo emblematico, proprio per la peculiarità del caso, i tratti di una storia femminile dove l’ambizione del potere si fa complice del potere stesso, quale esso è, e si misura su modalità dell’agire in campo pubblico che non si scostano dalle dominanti pratiche del potere stesso. Il tutto è poi  permeato, per quanto riguarda sempre Clinton, dal tradizionale tratto femminile –  che i cambiamenti scaturiti grazie al femminismo non hanno cancellato – di una accondiscendenza, adattività o vera e propria complicità  femminile al potere maschile e alle sue regole.  E anche furbizia – che è il corrispettivo femminile della capacità tattica maschile – nello sfruttare tutte le occasioni che si presentano come riserva per il futuro, come carta che può venire utile domani. Il che è emerso nella storia dei rapporti di sesso tra l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e la stagista Monica Lewinscky  e nell’atteggiamento assunto da Hillary Clinton nei confronti del potente marito. La First lady infatti, quando il presidente non trovò di meglio da fare che negare l’affaire Lewinsky, prese le difese del marito e  quando lui fece un passo indietro e ammise la sua colpa, lo perdonò. Il tutto per evidenti convenienze di Stato, che riguardavano però non soltanto la salvaguardia del ruolo del marito ma anche le ambizioni personali della stessa First lady, già allora evidenti e dichiarate. Salvare il potente marito dandogli fiducia, poter continuarlo a frequentarlo come moglie fedele e devota  costituiva allora e ha costituito poi una scommessa  per il futuro. I fatti sono andati come sono andati e tutte le tessere sui cui Illary ha lavorato in questi anni si rimettono oggi a filo in vista della sfida per la Casa Bianca. La Prima Donna Presidente degli Stati Uniti: il sogno di una vita. Niente di cui meravigliarsi: tutto secondo le regole del potere e di come il potere, nel tempo che viviamo, ha strutturato il rapporto tra il personale e il politico, il pubblico e il privato,  per donne e uomini e nel rapporto tra i sessi. E di come le donne giocano la loro partita, le loro ambizioni e i loro desideri  negli scenari che anche grazie a loro sono così cambiati ma continuano a essere strutturati su rapporti di potere attraversati e performati dal nucleo duro di un di più di potere in mano agli uomini. Oggi, tra tanta presenza di donne e tra le tante contraddizioni che questa presenza produce e alimenta, stentiamo a capire in che cosa sia consistita quella che in altri tempi chiamammo la “rivoluzione più lunga” e di cui oggi stentiamo a ritrovare le tracce. La libertà femminile, dicemmo. E sicuramente la libertà delle donne è il grande deposito di quella straordinaria fase della tarda modernità, in cui la libertà si incarnò nel vissuto in rivolta di un numero incredibile di donne, capaci di mettere misero in piazza l’imprevisto di voler esser quello che erano. Ma la libertà oggi è di ognuna, per quello che ognuna può, capisce, mette in gioco. E’ un’altra libertà. Sulla scia di quello che Judith Butler dice del femminismo, mi piace pensare che la differenza femminile  possa misurarsi, alla grande e radicalmente, con la questione della trasformazione sociale, con il senso delle cose, con  il prendersi cura della vivibilità del vivere e del valore delle vite immaginando strumenti per aiutare  il mondo verso nuovi valori e nuovi approdi. Lo scarto della politica, insomma.  Un’utopia? Forse, ma un’epoca come la nostra ha bisogno di utopie e di qualcosa di utopico si nutrono tutte le sparse e frammentate ma spesso impareggiabili  esperienze politiche che, nonostante tutto, continuano a segnare la vicenda umana.