Ajla e Alina, madre e figlia, intrattengono un dialogo stringente e muto.

La prima dal letto di un ospedale in cui dietro le palpebre chiuse rilegge il suo mondo; la seconda seduta accanto, che ignora il drammatico passato della madre “la cui vita affonda le radici in una tragedia che le ha rubato tutto, tranne l’orrore.”

Sullo sfondo, una guerra mai dimenticata, con le sue atrocità e una Parigi imbiancata di neve, con i suoi ritmi incalzanti ma ovattati, come il sommesso narrare della figlia alla madre, il ricostruire, per sé e per lei, nuova identità.

Alina è muta, ma parla a sua madre, e sua madre, lei lo sa, la ascolta.

Ma per quanto indaghi, la madre non lascia quasi tracce di sé, quasi “…dissuaderla dal mettersi a caccia del passato. Dietro di me non è rimasto nulla se non cadaveri, case bruciate, vite infrante. Nulla che valga la pena di sapere e nulla che valga la pena di cercare.”

Alina insiste, con moti di muta ribellione, rifiutava di “abbandonarla a quel destino di incoscienza”.

“…Mamma, io ho sete di sapere. E tu è ora che ti svegli! Non puoi abbandonarmi così (…); come faccio a occuparmi del mio futuro se sono costretta a passare le mie giornate in questa stanza di ospedale? Un disturbo di conversione, ha detto il medico, di cosa si tratta? In sintesi, non ha nulla che a livello neurologico giustifichi il tuo stato, motivo per cui ti trasferiranno in psichiatria.”

Il simbolo dell’intreccio delicato e forte del dialogare sulla pena del vivere, è il filo del ricamo in cui Alina è maestra, aspirante fiberartist. Da quel filo ritorto, annodato, portato quasi al punto di rottura, usciranno entrambe diverse.

Maria Silva Bazzoli, laureata al Dams e giornalista free lance, saggista e curatrice di festival cinematografici, documentarista, allo scoppio della guerra nella ex-Jugoslavia segue le vicende dei/delle profugh* e la loro accoglienza in Italia.

Non ha scritto un libro facile, ma è un libro vero, una trama più che possibile con venature quasi autobiografiche.

Nella Postfazione “Parole cucite, parole scucite” di Nicole Janigro, si sottolinea l’evidente simbiosi tra una madre, da sempre muta, e una figlia che corre al suo capezzale parigino, da N.Y., sapendo che come la madre non aveva mai detto, lei non aveva mai chiesto.

Il non detto di Ajla è quello che fino a quel momento Alina aveva evitato d’indagare, ma il ricovero segna un punto di non ritorno: “La condizione della madre mette in moto la ricerca della figlia; un graduale svelamento di luoghi e di persone che arriva a chi legge attraverso un discorso interiore”, scrive Janigro, e il ricordo dell’infanzia arriva ad Alina attraverso “..bagliori tra le ciglia. Guizzi di sole dorati, fronde d’alberi tintinnanti, nuvole impigliate fra i rami, particelle di polvere sfavillanti nell’aria” e di sogno in sogno, d’incubo in incubo, nell’emergere e analizzare del duplice percorso interiore, ritrova se stessa e offre una speranza di vita e di felicità alla madre.

In ultimo, l’Autrice ringrazia “…Ajla e Alina di essersi intrufolate nella mia mente imponendomi con tenacia di raccontare la loro storia” e ringrazia tutte le donne che nel corso del suo lavoro di giornalista e documentarista, con generosità e fiducia mi hanno concesso il loro tempo e consegnato le loro tragedie, aprendomi alla comprensione profonda della fragilità e dell’incertezza che abita le nostre vite.” A loro è dedicato il libro. Corale, voce di tante senza voce, che anche loro, annodando con parole la vita, si potranno salvare, come Ajla/Alina.

Info: Maria Silvia Bazzoli, La voce di Ajla, Forum, 2020.