Roberta Cosentino, Silvia Demita e Alida D’Ambra sono le autrici dell’articolo che segue. Tratta delle narrazioni del femminicidio, argomento che avevano già trattato in un breve saggio precedentemente pubblicato, e che loro stesse citano, al quale rimandiamo per un breve ritratto delle autrici, che ringraziamo.


Molteplici definizioni e molteplici narrazioni caratterizzano il femminicidio. Il termine stesso, utilizzato per descrivere un fenomeno sociale molto complesso, non gode di una definizione univoca e condivisa, il ché, come è facile immaginare, comporta una confusione diffusa sia sul piano preventivo, su quello giuridico e, non per ultimo, sul piano dell’impatto sociale.

In un articolo precedente avevamo già affrontato l’argomento, raccontando la nascita e l’evoluzione del termine, delle diverse definizioni e dei conseguenti significati.

Ciò che approfondiamo in questa sede, invece, riguarda il linguaggio e le narrazioni che caratterizzano il fenomeno stesso, considerando il femminicidio non come un atto a sé, slegato dal contesto culturale e relazionale in cui si inserisce, ( prospettiva a nostro parere superficiale e deresponsabilizzante) ma come il frutto di un contesto culturale, quello in cui viviamo, che tutti conosciamo e che ci appartiene (sì, a volte anche senza rendercene conto).

Sarebbe utile, allora, collocare il complesso fenomeno del femminicidio all’interno di un continuum, che rappresenta, in modo estremamente semplificato, la nostra società, che fa da sfondo all’emergere e allo sviluppo di fenomeni. Una società che, seppur in continua evoluzione e cambiamento, porta ancora con sé preconcetti di tipo patriarcale che, ancora oggi, influenzano il nostro modo di percepire e leggere ciò che accade intorno a noi. .

Pensiamo, allora, di fissare come punto di partenza quell’insieme di credenze e stereotipi basati su ruoli di genere, ideologie sul maschio e sulla femmina che, pur non rispecchiando i valori e gli ideali prevalenti delle nuove generazioni e delle società moderne e contemporanee, permangono e ne costituiscono lo sfondo.

Da questo sfondo emergono linguaggi ed atteggiamenti che, spesso in modo inconsapevole, rispecchiano questi pregiudizi e stereotipi.

Ad esempio, atteggiamenti e linguaggi sessisti e/o discriminatori, anche se di uso comune e non con intenti offensivi, caratterizzati anche da battute o scherzi rappresentano già di per sé un atteggiamento violento, esplicato come violenza verbale, poiché possono causare disagio o sofferenza in chi li riceve. Tali atteggiamenti, nei casi più “estremi”, possono tramutarsi in comportamenti e atti violenti, dispiegati in svariate forme, tra queste la violenza fisica. Dalla violenza fisica, ecco il femminicidio.

Il complesso costrutto culturale in cui il femminicidio nasce e si sviluppa, quindi, non solo dà il via all’escalation di violenze ma, ancora più grave, ne può giustificare e legittimare l’esecuzione, poiché, sul piano individuale, traggono origine proprio dal sistema valoriale.

Le credenze radicate nella nostra cultura e che riguardano ruoli di genere e stereotipi, sono ancora difficili da sradicare. Il linguaggio e gli atteggiamenti che ne derivano, inoltre, a volte non sono così facilmente riconoscibili, da chi li mette in atto ma anche, a volte, da chi li riceve, proprio perché consolidati nel tempo e ormai legati al nostro modo di comunicare ed entrare in relazione.

Ma il linguaggio da tutti noi utilizzato, spesso in modo inconsapevole, diventa di fondamentale importanza anche per un altro motivo! Questo, infatti, influenza la narrazione, portando con sé, in modo implicito, la distribuzione delle responsabilità.

Per rendere più chiaro questo concetto facciamo insieme questo “gioco”: provate a cercare su testate diverse, articoli che narrano di casi di femminicidio.

Riportiamo qui ad esempio, alcuni titoli di giornale (realmente esistenti):

Femminicidio a Trento, uccisa dal marito una donna di 42 anni”

“Femminicidio, donna uccisa con un’ascia dal marito”

La donna uccisa a martellate dal marito”

Per la maggior parte dei casi, questo tipo di notizia viene presentata così, basta fare una piccolissima ricerca per verificare.

Cosa notate? Questo genere di narrazione mette in primo piano la donna, in quanto vittima del reato, lasciando sullo sfondo il responsabile dell’atto. Protagonista della vicenda è sempre la donna.

Proviamo a ribaltare, invece, questi titoli e vediamo cosa succede…

Femminicidio a Trento, uomo uccide la moglie di 42 anni”

“Femminicidio, uomo uccide la moglie con un’ascia”

“Uomo uccide a martellate lamoglie”

Adesso l’uomo è il soggetto della frase, il protagonista della vicenda! Non lo percepite come “più responsabile” dell’accaduto?

E se invece provassimo a cercare articoli in cui la vittima è il marito? Che tipo di narrazione viene privilegiata?

Palermo, uccide il marito con il veleno per stare con l’amante”

La follia di Loredana: uccide il marito e poi va alla lezione di canto”

“Omicidio a Mantova: donna uccide il marito e scappa, poi si autodenuncia”

(Anche in questo caso, i titoli degli articoli sono reali).

Che sia la donna vittima o aggressore, lo stile narrativo adottato, nella maggior parte dei casi, sembra sempre metterla al centro della vicenda, attribuendole, di conseguenza, le responsabilità dei fatti.

Questo per dimostrare quanta importanza abbia il linguaggio quotidiano nella descrizione e nella percezione che abbiamo di un fatto o, in questo caso, di un fenomeno.