Recentemente, il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Cassino e Lazio Meridionale ha organizzato un incontro a più voci sulla guerra in Ucraina. Ho aderito anche perché avevo deciso di parlare di un argomento, quello del pacifismo femminile di cui poco si discute, mentre nella lezione straordinaria che gli studenti del mio corso di Storia della comunicazione politica mi avevano chiesto, avevo precedentemente disegnato un quadro storico politico.

Dalla definizione comune di pacifismo, come teoria e movimento che considera una pace durevole e universale come bene altamente desiderabile, tanto desiderabile che ogni sforzo per raggiungerla è considerato degno di essere perseguito, nascono molti interrogativi. La pace cui mira il pacifismo non è una pace qualunque d’equilibrio, ma una pace di soddisfazione, risultato di una accettazione consapevole, in cui le parti non hanno più rivendicazioni reciproche da avanzare.

Il primo interrogativo che mi sono posta riguarda la narrazione della guerra in atto in Ucraina da parte della società massmediologica, drammatica, in un certo senso vecchia, rivelatrice di tanti paradossi. Da una parte la geopolitica, che stavolta ha al centro l’Ucraina, terza riserva europea di shale gas (gas scisto), settima riserva mondiale di carbone, granaio per molti paesi, centro dell’Europa, secondo la targa apposta dalla Società geografica nel 1911; intorno alla guerra ruotano la cyberwar, le superpotenze, la lotta per le materie prime, i mercati finanziari. Dall’altra parte della narrazione, vediamo cortei di donne con bambini o singole donne isolate che mettono al riparo come possono gli affetti sono immagini quasi senza tempo, che se non fossero così drammatiche, diventerebbero stereotipate. Voci che non sono decisore delle vicende cui mettono riparo, come sempre.

In una guerra di aggressione come questa, il consenso certo non è un fattore in gioco, ma per le donne vale ancora meno, e dei centri decisori di guerra e pace le donne non hanno fatto parte per secoli, oggi solo come minoranza; di regola i parlamenti che non funzionano aprono la via al dispotismo; il cosiddetto uomo solo al comando, più o meno sanguinario, ha dimostrato fino alla noia di non aver elaborato quel senso del limite, approfondito dal neofemminismo degli anni Settanta; di certo, non possiamo ancora oggi dire che la democrazia paritaria sia la cifra politica dell’Occidente: anche se nel 2019 il Parlamento ucraino in particolare ha registrato un record di donne, 86 parlamentari, circa il 20%, la parità è lontana; dal sito Women in national parliaments peraltro, nei 140 paesi posti in ordine decrescente al 71° posto c’è l’America, la Russia è al 95° (13,6), l’Italia al 32° con il 31% di presenza femminile; possiamo legittimamente chiederci, visto l’assunto raramente contestato che le donne siano in massima parte pacifiste, se non altro per i prezzi che pagano, quale consenso diano alla politica interna ed estera e alla formazione di una opinione pubblica che conti.

La Russia, il paese aggressore, l’erede snaturato dello stesso Paese che fermò l’avanzata nazista perdendo nella seconda guerra mondiale più di venti milioni di persone, dove sono presenti 200 gruppi nazionali/etnici, non può certo essere un esempio oggi, mentre lo è stato in passato; la rivoluzione del ’17, ha aperto per le donne spazi di libertà uguali e superiori a quelli di altri paesi europei; è stato separato il matrimonio civile da quello religioso, resa possibile la scelta del cognome nella coppia, sancita la parità degli illegittimi, e i diritti alla tutela della salute. Al 1920 risale l’interruzione della gravidanza, il divorzio, il salario minimo, i congedi di maternità. Nei fatidici anni Trenta, che sono anche per l’Italia e la Germania anni di negazione della democrazia, l’aborto è di nuovo illegale, l’omosessualità un crimine, aumenta il numero delle donne presenti nei gulag, esonerate dal lavoro duro, ma non dagli abusi e dalle violenze sessuali. Solo dopo la morte di Stalin, nel ’55, il diritto di interrompere la gravidanza è di nuovo ripristinato e dagli anni Novanta per la condizione femminile i problemi sono gli stessi dell’Occidente: gander pay gap, maggiore licenziabilità, molestie e violenze in aumento, stupri non denunciati. Nel 1996, stesso anno in cui in Italia viene approvata la legge contro la violenza sessuale impiegando venti anni, la Duma, aula inferiore dell’Assemblea Federale elabora la legge contro la violenza domestica, ma per l’opinione della maggior parte delle donne russe è colpevole solo chi reitera veramente. Nel 2017 è stata anche decriminalizzata la violenza domestica, semplice reato amministrativo, con l’effetto di aumentare la violenza contro le donne; lo stesso anno ha registrato la morte di una donna ogni 40 minuti a causa di un abuso domestico; se la Russia, il paese aggressore segna il passo come diritti umani e democrazia paritaria, anche in Ucraina si addensano ombre proprio sulle persone che intendevano modernizzare il paese e liberarlo dalle oligarchie modello russo; il The Guardian, nell’ottobre 2021, con il Pandora Paper, frutto di una lunga inchiesta, ha evidenziato il numero non denunciato di società off shore (Belize, Cipro, Isole Vergini), di Zelensky, e dei suoi ex compagni di recitazione.

Pur non contando come gli uomini in politica, certamente le donne sono ostili alla violenza, ma quali sono gli strumenti politici decisionali per opporsi? Le donne che fuggono dalla guerra, come fanno quando possono le donne di tutti i paesi dove c’è un conflitto in atto, aprono un altro paradosso: cercano riparo in paesi come la Polonia, fra i paesi del Patto di Visegrad, che certamente non sono dei campioni di garantismo dei diritti umani, soprattutto nei confronti delle donne; ricordo che in Polonia una legge recente impedisce l’interruzione di gravidanza anche in presenza di malformazioni del feto; pur di non “concedere” diritti fondamentali per la libertà femminile, riconosce persino l’omosessualità, ma manca una legge contro l’omofobia e sulle coppie di fatto. Per la prima volta, quindi il flusso delle persone che fuggono dall’Ucraina va ad interessare proprio i paesi che maggiormente erano contrari al sistema di accoglienza europeo, fra cui l’Ungheria che si era opposta anche al piano di ricollocazione.    

Il secondo interrogativo che mi sono posta, oltre al rifiuto di una posizione manichea che veda da una parte Putin come avversario di una politica internazionale senza macchia, e gli Stati Uniti come eterni esportatori e protettori di democrazia, è la posizione dell’Europa rispetto ai profughi, rifugiati, migranti. La direttiva n. 55 della UE, Consiglio dell’Unione europea, del 2001 nata dopo la crisi nei Balcani detta anche direttiva Kosovo, mai attivata anche di fronte all’emergenza in Libia e alla recente crisi afghana, garantisce ai profughi attuali una forma di protezione finora sconosciuta; una protezione temporanea che accentua l’inadeguatezza di un sistema di accoglienza che per gli altri profughi rimane uguale. Polonia e Ungheria hanno evidentemente dimenticato in favore dell’Ucraina i muri e i fili spinati, così come i nostri Berlusconi e Salvini hanno messo da parte gli elogi a Putin e le sbrigative soluzioni verso i migranti, che consistevano nello sparare sui gommoni; molto recentemente, anche in Siria i bambini sono morti per le armi chimiche, anche in Afghanistan c’erano donne e bambini, anche dalla Libia arrivano i profughi, morti affogati, morti senza nome, morti assiderati o salvati dalle madri che sono morte per salvare loro. Il campo di Lesbo nel 2020 aveva donne e bambini che vivevano senza acqua pulita a pochi metri dal mare, senza fogne, senza assistenza sanitaria, senza riparo dal Covid, e senza illuminazione, il che sembra un dato meno grave, e invece questo li rendeva più esposti alle violenze e agli abusi. Nelle disposizioni urgenti di Draghi l’Italia riconosce ai soli ucraini la possibilità di accedere all’accoglienza anche senza aver fatto richiesta di asilo e inviare armi non ci sembra la soluzione migliore per un diritto alla pace.

Paradossalmente, la differenza oggi la fa una non guerra, cioè il nucleare, per definizione l’annullamento di una guerra tradizionale, che esclude ogni sofisma. Per il filosofo della politica Norberto Bobbio, vissuto nel Novecento, il secolo più sanguinoso della storia, due guerre mondiali, la bomba atomica, lo sterminio degli ebrei, la guerra nel Balcani, vi sono due modi di considerare la guerra come una via bloccata, ritenerla impossibile o ingiustificabile, oppure l’equilibrio del terrore e la coscienza atomica. Secondo il primo, la guerra non può più accadere, senza esprimere un giudizio di valore; per il secondo, con un giudizio di valore, la guerra è un male assoluto. “E’ davvero incredibile- scriveva non molti anni fa Bobbio- quanto grande sia il numero delle persone, soprattutto fra gli uomini di cultura che mi accade spesso di interpellare, le quali si sono adagiate nell’equilibrio del terrore. Si dichiarano soddisfatti del beneficio attuale. Considero quest’atteggiamento, oltre che politicamente ingenuo e storicamente superficiale, un tipico prodotto di falsa coscienza. Il carattere di un equilibrio fondato esclusivamente sul terrore reciproco è la sua precarietà: già oggi non esiste più o è in via di trasformazione. E se l’equilibrio del terrore è paralizzante, lo squilibrio libera almeno una parte del terrore. L’idea di progresso tipica delle filosofie della storia del secolo scorso, quelle stesse che sono state al centro delle riflessioni femministe sul senso del limite, sia idealistiche che positivistiche, è servita anche per giustificare la guerra come un male necessario. La guerra serve al progresso morale: se non ci fosse la guerra non si svilupperebbero alcune virtù, come il coraggio, lo spirito di sacrificio e solidarietà; la guerra serve al progresso civile, è tra i cosiddetti fattori d’incivilimento, un grande mezzo di comunicazione fra gli uomini, attraverso essa le civiltà si scontrano e si mescolano, la guerra serve al progresso tecnico. La guerra poi che scoppia per una iusta causa, come questa, è un’offesa il cui scopo è la riparazione di un torto o la punizione di un colpevole, assimilando la guerra ad una procedura giudiziaria. Ma questo per Bobbio ha messo in evidenza la sua debolezza; in ogni procedura giudiziaria si distinguono il processo di cognizione e il processo di esecuzione, il primo è tanto più in grado di assicurare il giusto e l’ingiusto, quanto più si ispira ai due principi della certezza dei criteri di giudizio e della imparzialità di chi deve giudicare; ma nella dichiarazione e attuazione di una guerra i due principi non vengono rispettati perché non c’è stata guerra che non abbia trovato la sua giustificazione; inoltre, chi decide della giustizia o ingiustizia della guerra è la stessa parte in causa. La guerra è quindi una procedura giudiziaria in cui il maggior male è inflitto non a chi ha più diritto, ma a chi ha più forza, per cui si verifica la situazione in cui non è la forza che è al servizio del diritto, ma il diritto finisce per essere al servizio della forza.