Sono grata a Il Paese delle donne per avermi chiesto di leggere e recensire questo saggio che tratta con perizia ed in maniera chiara “il desiderio nel femminismo che verrà”.

L’autrice, Jennifer Guerra, è una giovane donna di 25 anni che vive e lavora a Milano dove ha conseguito la laurea triennale in Lettere e la Magistrale in Editoria, Comunicazione e Moda. Titolo del libro: “Il corpo elettrico” Edizione Tlon, in libreria in questi giorni.

Jennifer Guerra lavora come redattrice e scrive sulla testata online The Vision. È interessata alle tematiche di genere, alla storia delle donne, ai temi del femminismo e ai diritti LGBT+. Si dichiara appassionata di Ernest Hemingway.

Tuttavia, prima di parlane, vorrei raccontare cosa ha rappresentato per me la lettura di questo saggio.

Il femminismo fa parte della mia vita, il pensiero politico femminista, il movimento delle donne, le sue pratiche politiche, il partire da sé mi danno energia, vita, mi aiutano a respirare, ad esistere. Non sarei ciò che sono se non avessi incontrato quest’onda, questa forza, il sapere, la scrittura, la politica delle donne. La lettura de “Il corpo elettrico – il desiderio nel femminismo che verrà” mi ha procurato una forte emozione che mi fa dire: in fondo, il femminismo ha seminato meglio di quanto si dice, si racconta e si pensa.

Giovani donne competenti e determinate crescono, per questo consiglio il libro di Jennifer Guerra. Leggendolo, appare evidente che “questo libro non è un libro di teoria, ma un libro di prassi”, che “quello che riguarda un solo corpo di una donna nel mondo riguarda tutte le donne.” Questa narrazione fortifica la mia convinzione che il femminismo è la più grande rivoluzione-non violenta che, partita dal XIX^ secolo, ha attraversato il XX^ e continua, segnando e rinnovandosi anche in questo secolo.

Il testo ha una solida architettura e mostra conoscenza di molte autrici femministe, a cominciare da Carol Hanish: suo il famoso slogan “il personale è politico” che dà il titolo al primo dei sei capitoli. Si arricchisce con le parole e il pensiero di Luce Irigaray, Judith Butler, Carla Lonzi, Adriana Cavarero, Lia Cigarini.

Il saggio si concentra sul corpo femminile nella società contemporanea, e nel secondo capitolo: “Contenuti e contenitori” descrive “il monitoraggio abituale del corpo”, ovvero, quella “tendenza di una donna a pensare costantemente al modo in cui appare”, cioè a come è oggettivato il corpo delle donne nella e dalla pubblicità. Il “Male gaze”, lo sguardo maschile, “proietta la sua fantasia sulla figura femminile che è stilizzata a piacere”, inoltre, l’immaginazione maschile introiettata riesce a mettere le donne l’una contro l’altra. Come fare i conti con quella che si chiama “misoginia interiorizzata?” Come creare “uno sguardo femminile, un Female gaze per non cedere all’oggettificazione del desiderio maschile e al giudizio di altre donne?

Proprio per esercitare il diritto di prendere decisioni sui nostri corpi, nel terzo capitolo, “Lo si diventa”, si parte dal Manifesto Transfemminista del 2001 di Emy Koyama, e si racconta della seconda rivoluzione sessuale, quella che stiamo vivendo in questo momento. Corpi che non si identificano con il genere assegnato alla nascita, o perché si riconoscono in entrambi o in nessuno dei due, o che ancora hanno dei genitali o caratteristiche sessuali che non rientrano nella binarietà del maschile e del femminile. Per questo, al concetto di “non-binario” si associano i comportamenti “strani, bizzarri, eccentrici” in una parola Queer, parola inglese per significare quei comportamenti.

Questione antica che ha segnato varie personalità, già John Stuart Mill provò a mettere in discussione il concetto di “natura femminile”, ma fondamentale è stata Simone de Beauvoir nel “Il secondo sesso”: “L’uomo è il Soggetto per eccellenza, il primo sesso; la donna non può che essere l’Altro, quindi seconda a lui”. Probabilmente i tempi “non erano maturi per affermare che il genere, ogni genere, non solo quello femminile, è qualcosa di totalmente artificiale” Ma, in realtà, il genere non è un demone astratto, ma qualcosa di vero e vivo e, come dice Jennifer Guerra, il “gender” non esiste, ma il genere esiste, eccome! E se ciò che non può essere capito o addomesticato viene escluso, è bene sapere che il femminismo non deve affatto essere socialmente accettabile. Poiché il genere è anche un dispositivo politico, usato soprattutto dagli uomini, superare i due concetti di norma e devianza è la strada da percorrere per il transfemminismo.

Il titolo del quarto capitolo “Dalla parte delle bambine”, titolo del libro del 1973 di Elena Giannini Belotti, racconta la trasformazione dei valori della società e della conservazione rispetto ai generi, a partire dalle bambine. Di come la perpetuazione dei ruoli di genere consolida e rende immobile un sistema economico-sociale. Liberare l’educazione delle bambine, delle ragazze, “piantare tutta la foresta”, come dice Stendhal, è stare dalla parte delle bambine, per farle essere tutto quello che vogliono, una generazione di donne (e uomini) consapevoli. Oggi, il nostro immaginario esalta il valore della giovinezza del corpo, che è il mito per molte donne adulte. Quelle che non inseguono questi miti sono derise, vedi Silvia Romano, la volontaria rapita in Kenya e liberata, Greta Thunberg la sedicenne “leader” del movimento Fridays for Future. C’è sempre qualcosa o qualcuno pronto a denigrare o a seppellire per l’abbigliamento o per l’aspetto. Quello del corpo, dell’aspetto fisico, quello della donna forte che risponde colpo su colpo alle discriminazioni sociali, culturali, economiche è stato il terreno di lotta su cui si è fortificato il movimento femminista. Ancora oggi è così e non tutte le donne sono capaci di esercitare la loro forza. Il #MeToo è servito a far conoscere e fare emergere un mondo che tutto era, tranne che un Eden. “La rabbia è un dolore di distorsioni tra pari, e il suo oggetto è il cambiamento” disse Audre Lourde all’apertura della National Women’s Studies Association Conference nel 1981. Per questo, “è indispensabile fare muro intorno alle donne, specialmente le più giovani, che subiscono la sopraffazione del potere maschile nelle forme più sottili”.

C’è poi l’arte di raccontare. Nel capitolo quinto – “Questo è il mio sangue” -si racconta una storia di cui non si parla mai, ovvero delle mestruazioni e questo perché il ciclo deve rimanere un segreto. Ancora oggi, anche sui media il sangue mestruale è censurato e bannato. Si può fare pubblicità degli assorbenti ma non si deve far vedere il sangue. Questo perché il ciclo è considerato come debolezza, vulnerabilità, fragilità, persino come instabilità mentale, ergo rischioso. “La donna come l’uomo è il suo corpo” dice de Beauvoir, “ma il suo corpo è altro da lei”. Oggi la notevole offerta per accedere all’igiene mestruale permette a milioni di donne di condurre la propria esistenza quotidiana senza condizionamenti, e ciò ci rende più indipendenti. Non è ancora così in molte zone del mondo ma lentamente il tabù del ciclo sta crollando. È bene sottolineare che il ciclo è un elemento fondamentale per la differenza sessuale, anche se questo non significa scadere nel determinismo biologico, né tantomeno dimenticare che ci sono donne che non hanno le mestruazioni: le bambine, le donne in menopausa, le trans, quelle affette da alcune malattie e quelle in gravidanza. La cultura mestruale è un sapere, e in società altamente tecnologizzate e soggette alla scienza, il corpo mestruante è disfunzionale, per questo è utile far valere il sapere alternativo, ovvero quello della cultura mestruale.

Rovesciando la prospettiva e, per concludere il saggio, nel sesto capitolo: “Una buona eroina è un’eroina morta” la giovane autrice afferma che si è ritrovata più volte a pensare che “la donna perfetta è quella morta”.

Se ci fermiamo a ragionare è vero. Quando una donna: madre, sorella, figlia, compagna, lavoratrice, collega muore, è quasi sempre descritta come eccellente, buona, ottima, affidabile.

“Il corpo della donna morta riveste, nell’ordine simbolico, una grandissima importanza.” Una sorta di archetipo che agisce nell’inconscio collettivo e plasma la nostra storia, insieme a tanti altri archetipi, ad esempio, corpo del dolore e della sofferenza: il binomio donna-dolore è costitutivo dei ruoli di genere e, pertanto, si dà per scontato che la morte di una donna, soprattutto se violenta, sia un fatto inevitabile e naturale.

Un altro mito fondativo della cultura monosessuata è quello dell’omicidio femminile e, come dice Guerra, se togliamo di mezzo le donne morte dovremmo cancellare tre quarti della letteratura e dell’arte: Shakespeare, Madame Bovary, i racconti di Edgar Allan Poe che scriveva: ”Non c’è niente di più poetico al mondo della morte di una bella donna”. E la storia continua, nel fumetto si parla di “donna nel frigorifero”, nel cinema, nei media, un mito, quello della donna ammazzata, così appassionante che la Chiesa ha elevato a prototipo di morta perfetta Maria Goretti.

Un’anticipazione di femminicidio che continua e dove la vittima scompare e l’omicida e o il violentatore viene rappresentato come “gigante buono”, “una persona di animo semplice”, che l’amava troppo. E se una donna non ricambia questi sentimenti e queste attenzioni è colpevole della propria morte o della violenza. È Il victim blaming , famosa pratica di incolpare la vittima per qualcosa che è stato commesso a suo danno.

Infatti, nel 1975, Susan Brownmiller, nel saggio “Contro la nostra volontà” parla dello stupro non come evento eccezionale o caso di cronaca che si ripete di tanto in tanto, ma come fattore culturale pervasivo. Basta seguire i processi per rendersene conto: raptus, pulsione sessuale incontrollata, energia incontrollabile e via dicendo.

A fronte di ciò, anche le migliori intenzioni e i discorsi mainstream falliscono perché si rifiuta di riconoscere la natura strutturale e culturale della violenza e si continua a vittimizzare le donne come categoria universale.

Debole o forte non conta, c’è sempre qualcosa che non torna, e chiaramente è l’essere donna.

Jennifer Guerra, al modello della forza, preferisce quello della rabbia perché per lei la forza è un valore che torna utile al sistema, mentre la rabbia – sentimento irrazionale – ne è la falla, la crepa. A sostegno della sua tesi richiama il Manifesto di Rivolta Femminista: “La narrazione della donna arrabbiata è un’alternativa efficace alla narrazione della donna morta: la rabbia è azione, volontà, risposta a quell’illusione di universalità”. La rabbia è il desiderio da cui si è partite e dove si arriva a dire: “Caro patriarcato ci sono le quota rosa, i sussidi di maternità, le leggi di tutela, ma questo non ci basta” perché “Vogliamo il pane, ma anche le rose” E non le chiediamo a te, ma ce le prendiamo da sole.

Jennifer Guerra, “Il Corpo elettrico. Il desiderio del femminismo che verrà”, 2020, edizioni Tlon