Ogni anno nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne portiamo l’attenzione su un fenomeno ancora grave e diffuso, di cui in Italia, in Europa e nel resto del mondo è vittima una donna su tre nel corso della propria vita. L’impegno delle organizzazioni internazionali, delle istituzioni europee e di quelle italiane è cresciuto negli anni su questo versante, dimostrando la volontà di percorrere fino in fondo la strada della prevenzione e del contrasto della violenza di genere, di cui la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa segna per noi una tappa fondamentale. È mia ferma convinzione che cambiare la cultura che produce logiche di dominio e di violazione dei diritti delle donne sia un obiettivo realizzabile, e che per questo dobbiamo rinnovare ogni giorno il nostro impegno, tutte e tutti.

In questo 25 novembre, poi, che abbiamo celebrato in un contesto internazionale drammatico, a pochi giorni dagli attacchi terroristici di Parigi, in un clima di paura diffuso e attraversato da venti di guerra, a questa convinzione credo sia importante accompagnare anche una riflessione sulle sfide globali a cui siamo di fronte. Problemi in apparenza molto distanti – da una parte la violenza di genere che colpisce le donne soprattutto nelle case, per mano del partner o di parenti e conoscenti; dall’altra la violenza indiscriminata contro civili messa in atto dal fondamentalismo armato – hanno in realtà in comune la forte compressione della libertà delle donne, la loro subordinazione al diritto maschile, nella sfera domestica o nella sfera pubblica.

Come hanno scritto alcuni mesi fa in un contributo congiunto Radhika Coomaraswamy, ex sottosegretaria generale delle Nazioni Unite, e Phumzile Mlambo-Ngcuka, direttrice esecutiva di UN Women, “l’agenda comune e il primo interesse dei gruppi estremisti è quasi invariabilmente quello di porre dei limiti all’accesso delle donne all’educazione e ai servizi per la salute, restringendo la loro partecipazione alla vita economica e politica e imponendo queste restrizioni attraverso una violenza terrificante”. Ma se i vari movimenti estremisti fanno della questione femminile una questione primaria, non altrettanto accade nella risposta contro di essi da parte della comunità internazionale, in cui – continuano le autrici – “la promozione dell’eguaglianza di genere è stato solo un elemento secondario”. La comunità internazionale, invece, deve “riconoscere, come fanno gli estremisti, che la libertà delle donne è il fondamento di comunità resilienti e stabili – comunità che possono resistere alla radicalizzazione”. In breve, “ogni passo in avanti verso i diritti delle donne è un pezzo di lotta contro il fondamentalismo”.

Credo che la risposta della comunità internazionale al terrorismo, a cui oggi ci sentiamo più vulnerabili, non possa prescindere dalla consapevolezza della violenza subita dalle donne in tutto il mondo, e da un impegno per contrastarla capace di mettere al centro l’eguaglianza di genere e i diritti delle donne. Quindici anni fa, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, adottando la risoluzione 1325 su Donne, pace e sicurezza, ha del resto sancito il principio rivoluzionario secondo cui la pace è indissolubilmente legata alla parità tra donne e uomini.

Contro il terrore, l’azione sul piano militare non può non combinarsi con l’attenzione ai diritti umani e allo sviluppo delle aree del mondo in cui il fondamentalismo armato attecchisce, mettendo al centro l’empowerment di donne e bambine. “Se donne e le bambine sono i primi obiettivi dell’attacco, la promozione dei loro diritti deve essere la priorità nella risposta”, è la conclusione, che condivido, della riflessione di Coomaraswamy e Mlambo-Ngcuka.

Contro ogni violenza oggi più che mai occorre non cedere alla paura, ma lavorare alla costruzione di culture di libertà e rispetto delle differenze, a partire dalle relazioni tra bambini e bambine: gli uomini e le donne di domani.
comunicato 25 novembre 2015