Esce in Italia nel 2019 da Nero la prima edizione di Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto, un complesso testo di Donna Haraway costituito da una raccolta di riflessioni fatte in convegni, pubblicate in articoli e dedicate “a tutti coloro che generano parentele nell’imprevedibilità della parentela”.  Perché recensire oggi un libro pubblicato tre anni fa? La motivazione a monte è di carattere epistemico e politico, poiché il testo si dispiega come un’appassionata denuncia critica del nostro modello cognitivo dominante e della nostra modalità di interagire nella vita pubblica.

Fin dalle prime pagine, il saggio si rivela essere un vero e proprio atto di accusa contro i paradigmi filosofici e scientifici che caratterizzano la nostra era, definita Antropocene, grazie al termine divulgato dal chimico dell’atmosfera Paul Crutzen nel 2000, per indicare che una nuova era caratterizzata dalla rilevanza dell’attività umana ha soppiantato l’Olocene. Dalla rivoluzione industriale in poi, infatti, l’antropizzazione “è diventata un fattore geologico” (Stiegler, 2019, p. 41): il termine stesso “Antropocene” dice esplicitamente che la terra è entrata in una nuova era geologica, in uno stato senza analogo anteriore, in cui il calcolo prevale su ogni criterio di decisione (Ivi, p. 44). Un’era in cui gli esseri umani, continuando a porre al centro di tutto l’uomo come essere superiore, sono diventati il più grande e pericoloso fattore d’influenza sull’ambiente terrestre, tanto da rendere possibile la stessa distruzione dell’umanità e del mondo vivente.  L’accusa di Haraway è soprattutto una denuncia dell’insensibilità di questa prospettiva antropocentrica, che considera il cambiamento climatico e molti altri problemi ambientali della Terra con un grado inutile e improduttivo di inevitabilità.

Il carattere epistemico di tale denuncia motiva la scelta di recensire su questa rivista un testo femminista e anticoloniale e, al tempo stesso, fantascientifico anche se esso risale a qualche anno fa perché oggi, ancor più che nel passato recente, si rende palese l’urgenza di un cambio di paradigma rispetto a un modo di pensare gerarchico e verticale, come quello autopoietico che ha caratterizzato lo sviluppo della post-modernità.

Oggi non è più rinviabile la presa di coscienza di essere nella merda fino al collo, espressione materica mutuata dalla stessa Haraway che, grazie alla sua efficacia metonimica, rende evidente la necessità di “staying with the Trouble”. Trouble, racconta Haraway in un’intervista del 2016, deriva da un verbo francese del tredicesimo secolo che significa “agitare”, “intorbidire”, “disturbare”.

La consapevolezza di vivere su un pianeta infetto e tossico, secondo Haraway, deve muovere tutte e tutti a un’azione epistemica (e politica)  volta a generare disordine, Trouble, a sollevare una potente reazione di fronte a eventi devastanti  ma anche, allo stesso tempo, a far diventare capaci di reagire, gli uni con gli altri: l’obiettivo è quello di realizzare kin  – termine che in inglese indica la rete familiare e la genealogia di un soggetto – lungo linee di connessione creative per imparare a vivere e morire bene in una dimensione proattiva basata sulla capacità di reagire in response/ability. (Haraway, 2016 pp. 1/4.)

Appare quindi chiaro che l’intento del libro di Haraway non è semplicemente quello di far comprendere il mondo in cui viviamo, bensì di mostrare la necessità di modificare radicalmente il nostro modo di concettualizzare la realtà, sviluppando quello che l’autrice definisce un pensiero tentacolare, non gerarchico, alternativo al modello cognitivo dell’Antropocene.

Di qui il titolo composito, Chthulucene: le due radici greche del termine, Khthôn Kainos – spiega Haraway sempre nella stessa intervista – insieme designano una modalità spazio-temporale per imparare a stare con il disordine (Trouble) del vivere e con la capacità di reagire in Responsability su una terra ormai danneggiata. Nella doppia etimologia, il termine greco Khton, – terra intesa soprattutto come mondo ctonio, sotterraneo – congiunto a Kainos – recente, nuovo – si sintetizza il fondamento della nuova era, il cui inizio è la cura della terra e di ciò che potrebbe accadere in essa se non ci curassimo del suo insieme vivente. (Ivi) 

Ma il termine Chthulucene ruota anche intorno a una etimologia fantastica: il primo rimando è alla creatura di Howard Philip Lovecraft, il mostro Cthulhu, il cui nome (seppur con una grafia diversa perché Haraway spostando la H attua un metaplasmo) si pronuncia nello stesso modo. Il secondo rimando è al Pimoa Cthulhu, un ragno che vive sotto i tronchi degli alberi nelle foreste di sequoia delle contee di Sonoma e Mendocino, che direttamente evoca il pensiero tentacolare: zampe di ragno e tentacoli di polpi che vivono in simbiosi con altre creature.

In modo tentacolare, infatti, procedono il pensiero e la scrittura di Donna Haraway di capitolo in capitolo, mostrando l’apertura teorica ad accogliere ogni forma di vita animale e vegetale: dobbiamo continuare a pensare, scrive la filosofa americana, non solo con la nostra testa ma anche con quella degli altri, uomini o animali, vegetali e minerali. “È importante capire quali pensieri pensano altri pensieri. È importante capire quali conoscenze conoscono altre conoscenze. È importante capire quali relazioni mettono in relazione altre relazioni. È importante capire quali storie raccontano altre storie” (Haraway, 2019, pp. 57/58) Non è un caso che, quasi all’inizio del libro, per fondare queste forti asserzioni venga ripresa la tesi di Arendt in La banalità del male, poiché il male causato dall’assenza di pensiero in criminali come Eichmann, è paragonabile alla resa del pensiero che “potrebbe far avverare il disastro dell’Antropocene” (Ibidem).

Che fare e come pensare per sopperire al disastro dell’Antropocene? Quali pensieri abbiamo o usiamo per pensare altri pensieri? Quali conoscenze abbiamo per produrre altre conoscenze e di quali storie disponiamo per andare oltre il pessimismo antropocentrico? Il problema di uscire dall’antropocene, in quanto era tossica, è ben presente nella riflessione filosofica contemporanea che inaugura un neologismo “negantropocene” per indicare la fine di quest’epoca attraverso un reinvestimento del tempo guadagnato con l’automatizzazione in “nuove capacità di disautomatizzazione” (Stiegler, p. 41) Il negantropocene si basa perciò su un rovesciamento di paradigma, ma sempre in una dimensione autopoietica.

Diversamente per Haraway non si tratta soltanto di cambiare paradigma, perché il sistema teorico che ha dato vita all’automatizzazione del mondo è ormai un impossibile: “che cosa succede quando l’eccezionalismo umano e l’individualismo utilitarista dell’economia politica classica diventano impensabili nelle discipline e interdiscipline scientifiche più avanzate? Impensabili davvero, perché con loro, non è possibile pensare” (Haraway, p. 87). Quello che bisogna pensare non è un altro paradigma, ma un generatore di altri paradigmi.

Il pensiero su cui si fonda Chthulucene non è autopoietico, ovvero non si struttura muovendo dalla mente di un individuo, bensì dalla pluralità di specie che compongono la Terra. Secondo l’autrice, infatti, nessuna salvezza potrà scaturire dalla potenza autopoietica della tecnica, ma solo da una simpoiesi, (dal greco συμ, sim, per insieme e ποίησις, poiesis, inventare, creare) da una genesi in comune, un “con-fare”, poiché “i terrestri non sono mai da soli”, appartengono al multiforme e “compostabile” humus, costituito da invisibile biodiversità. L’individualismo, il genere, lo specismo (cioè la convinzione secondo cui gli esseri umani sono superiori alle altre specie) a uno sguardo più radicale non hanno senso, perché tutti i viventi sono ibridi e simbionti, connessi in un reticolo complesso con altre cosiddette specie. Intrecciati in un mondeggiare inestricabile e in con-divenire.

Nella simpoiesi è convogliata ogni sorta di sapere, riassunto sotto l’acronimo di FS (fantascienza, fabula speculativa, femminismo speculativo e fatto scientifico) ma anche la sapienza del più umile dei microrganismi: “i mondi FS non sono contenitori sono pratiche di modellamento, co-creazioni rischiose, fabule speculative”. (Ivi p. 30). L’invito è quello di considerare l’ambiente in cui viviamo e, in ultima istanza, il pianeta Terra come un sistema olistico, iper-connesso, che non vede l’uomo come unico protagonista ma come piccola parte di un insieme di più soggetti, umani e non, visto che, come Haraway stessa scrive “Siamo compost, non postumani; abitiamo l’humusità non l’umanità” (Ivi, p. 140) il nostro compito è quello di “Generare parentele, non bambini” (Ivi, p. 147).

Mentre nel “Manifesto Cyborg” del 1985 l’attenzione della filosofa andava al non senso del concetto di genere, in un momento nel quale le ibridazioni tra bios e macchine destrutturavano la stessa nozione di individuo, in Chthulucene l’attenzione, oltre che al genere, è diretta a pensare una via di uscita dal capitalismo, perché oggi non ci sono soltanto i conflitti di genere e quelli sociali. C’è il fatto che il mondo come lo abbiamo pensato con gli strumenti che il sistema cognitivo consolidato ci metteva a disposizione, è ormai compromesso. Haraway dichiara infatti il suo essere materialista e riconosce di essere debitrice al marxismo, all’ecosocialismo, al femminismo e a tutti i movimenti che lottano per un altro mondo possibile.

Come testimoniano i termini sopra riportati, il linguaggio di Haraway, a metà tra il filosofico e il fantascientifico, è immaginifico e creativo; tuttavia, questa esplosione lessicale non ha soltanto la funzione strumentale di aprire altre potenzialità semantiche oltre il vocabolario noto. I neologismi o i nuovi lemmi e locuzioni aprono il lettore a un universo poetico che scaturisce dal mondeggiare dell’autrice tra storie di specie diverse, che svelano legami e inaugurano fabule speculative.

Questo vocabolario, inizialmente, risulta ostico e disorienta il lettore, che però, via via, di capitolo in capitolo successivamente resta implicato in nuovi concetti, in racconti e narrazioni straordinariamente esplicative di una possibilità del pensiero; possibilità che riesce poi anche a fare presa, a dar vita a una mitologia performativa.

Così l’autrice attiva una macchina narrativa generatrice di racconti evocando il telaio virtuale del gioco della matassa o ripiglino, un gioco presente in moltissime culture, dove le innumerevoli possibili combinazioni di intrecci ottenute con le dita e con i fili possono risultare rappresentative della complessità del reale e ove si procede per connessioni in qualsiasi direzione.

Attraverso le fabule speculative Haraway ci invita a pensarci legati a un’infinità di creature, immersi in un fertile humus terrestre e a seguire l’esempio di simbionti come licheni e coralli della barriera corallina, o di alcuni protozoi e virus, che in un qualche modo si compongono e decompongono insieme, dipendono gli uni dagli altri in un processo che chiama di “con-divenire”. Con-divenire vuol dire che enti ontologicamente eterogenei diventano ciò che sono solo in un processo relazionale.  La soluzione di fronte a una possibile estinzione dell’umano è interagire, fare qualcosa insieme imitando il fare rete di altre specie.

Emblematicamente il libro si conclude con una favola fantascientifica, I bambini del compost, scritta insieme all’amica psicologa, filosofa ed etologa Vinciane Despret, e al regista Fabrizio Terranova durante un workshop in Normandia nell’estate del 2013. La favola racconta la storia di Camille, una bambina generata dall’incrocio tra una farfalla monarca e tra un essere umano, bambina appartenente alla Comunità del Compost, nelle quali ogni bambino ha almeno tre genitori.

Per Haraway questo è un esempio di racconto in grado di renderci capaci di immaginare un nuovo scenario terrestre. È un’idea ardita, forse un po’confusa, ma non è soltanto pura e stravagante narrazione fantascientifica, perché per lei inventare storie è un modo per ampliare la prospettiva, una “guarigione pratica”, una specie di rivolta che rifiuta la paralisi della critica, o l’idea che il mondo sia finito perché “sappiamo già come funziona”. 

BIBLIOGRAFIA

Haraway D., Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham e Londra, 2016 pp. 1-4.)

Haraway D., Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, University Chicago Press, tr. it.  Chthulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, traduzione di Claudia Durastanti, Nero edizioni, Roma 2019

Stiegler B., La sociétè automatique. 1 L’avenir du travail, Librairie Arthème Fayard 2015, tr. it. La società automatica, l’avvenire del lavoro, Meltemi 2019