In occasione della celebrazione di Artemisia Gentileschi alla National Gallery di Londra, ho pensato di ricordare la pittrice con un breve racconto da me inventato sul suo soggiorno nella capitale britannica.

Mio padre mi ha chiesto di raggiungerlo a Londra dove sta lavorando per Sua Maestà Carlo I, re d’Inghilterra, Scozia, Irlanda e Francia.
Mi dice, per procaccio, che il cielo lì è sempre grigio e che negli enormi saloni, nonostante i grandi camini siano sempre accesi, fa un freddo cane.
Mi racconta che l’estate non è una vera estate ma una finta estate perché non ci sono i grilli che da noiartri fanno ‘na gran cagnara e perciò ‘na gran compagnia!
Ho esaudito il suo desiderio e l’ho raggiunto.
Che viaggio faticoso! Che marosi!
Ora sono qui. Mi stanco troppo a dipingere in piedi. Dipingo seduta.
Mi sento persa in questi grandi, enormi stanzoni.
Il tempo non è mai abbastanza perché le giornate son corte di luce e bisogna sfruttar bene le mattinate. I pomeriggi si imbruniscono presto e… la luna non mi pare la stessa! Sì, non la riconosco. Mi sembra un’altra. Forse le lune so’ tante, anche se il signor Galilei dice che gli astri son molti ma la luna è una sola. Se vede che la faccia cambia!
Bisogna mettersi subito all’opera ché lor signori, qui a Londra, sono assai pretenziosi.
La voce del babbo si va facendo roca e gli inchini per rendere onore a Sua Maestà qui sono quasi fino a terra e te rompono la schiena!
A Londra il sole non è il mio sole e la luna non è la mia luna.
C’è tanta nebbia e la nebbia si posa anche sui miei occhi che mi paiono più offuscati. A volte le mani mi fanno male. Allora le guardo a lungo. Le giro e le rigiro. E i sibilli, con i quali mi hanno torturata durante il processo, sono ancora lì. Anche se nessuno li vede. Io li vedo ancora oggi che mi sto facendo vecchia.
“Dipingere, dipingere, non tanto dipingere – disse il Tassi – e mi levò i pennelli e la tavolozza dalle mani e poi mi sollevò i panni che ci fece grandissima fatica a sollevarli..”.
Questo pennello lo devo buttare. Le setole sono rovinate.
Ho bisogno di un pennello nuovo. Ah, eccolo!
Certo mio padre è sempre stato abilissimo nel dare alla seta i riflessi d’argento. Nessuno meglio di lui lo sapeva fare, né a Roma, né a Napoli, né a Firenze.
L’animo mio ha da soddisfare solo un desiderio: che riconoscano la mia valenzia.
Se fossi uomo al mio passare dovrebbero farmi la berretta e se mi fanno l’inchino mi spetterebbe doppio: per la donna e per l’artista. Certo, ai miei colleghi è concesso di fare i bravacci, star fuori la notte, cambiar bardassa quando vogliono, passare da una campo di gioco di pallacorda all’altro, frequentare le osterie, parlare con gli sconosciuti e gli stranieri…
Danaro? Ho bisogno di danaro e mi devono pagare il giusto, non approfittarsene perché sono donna!
Il colore dell’abito di Giuditta l’ho voluto splendente, come lo sole. Più giallo, lo volevo! Più giallo!
Sono usciti diversi sberleffi contro di me. Li volevo dimenticare, invece ce l’ho sempre nella memoria.

“Co’l dipinger la faccia a questo, e a quello
Nel mondo m’acquistai merto infinito,
ne l’intagliar le corna a mio marito
lasciai il pennello, e presi lo scalpello”.

“Gentil’esca de cori a chi vedermi
Poteva sempre fui nel cieco Mondo;
Hor, che tra questi marmi mi nascondo,
sono fatta Gentil’esca de vermi”.

“Dimmi, chi più t’offende
Casta Donna infelice:
Il marito, l’amante, o la pittrice?
Amor, furor, virtute
Egualmente contende,
Donna, la tua salute:
E congiurati sono à i tuoi dolori
Le lodi, le minacce, ed i colori”.

Dopo il processo, non c’è niente da fare, la fama di bardassa mi ha perseguitata a lungo. Ce l’ho ancora di fronte ai miei occhi. Li giudici, con il loro sguardo, a volte sfuggente a volte implacabile, li testimoni con le le loro falsità, i sibilli che mi stritolavano le dita.
Per questo mi dipingerò in un autoritratto come Allegoria della Pittura e lei sarà simile me: molto ispirata, presa dal suo lavoro, combattiva ed orgogliosa. Sì, proprio come me! Spero che Sua Maestà ne sarà pienamente soddisfatto