La sfida dei diritti umani nelle relazioni internazionali: tra affermazioni di principio e limiti della Realpolitik Quando abbiamo incominciato a progettare questo convegno, alcuni mesi fa, il tema dei diritti umani sembrava sopito, da tempo lontano dall’attenzione dell’opinione pubblica interna e internazionale. Anche solo pochi decenni fa la mobilitazione per la loro tutela era quasi automatica, determinava risposte politiche, mentre è innegabile che con il passar del tempo si sia verificata una caduta di sensibilità e di solidarietà.

Ora però è drammaticamente ritornato in evidenza e di attualità per i fatti tragici che sono sotto gli occhi di tutti:

-in primis il caso Regeni, la vicenda drammatica di queste settimane che ha reso attualissimo il tema e che sta risvegliando questa sensibilità, non solo nel nostro Paese

-ma anche l’accordo tra UE e Turchia in tema di rifugiati -entrato in vigore tre giorni fa, il 4 aprile, che ha visto molte organizzazioni che si occupano di diritti umani reagire con preoccupazione.

Nel secondo caso la considerazione è palese: la Turchia non è un campione in fatto di diritti umani per i suoi cittadini; non è difficile immaginare che lo sia ancor meno per quelli provenienti da altri Paesi.

Con riferimento all’Egitto e all’assassinio di Giulio Regeni, non posso non evidenziare un’analogia con la tragedia dei desaparecidos per mano della Giunta militare argentina degli anni ’70 e inizio ’80, fenomeno certamente di dimensioni molto più vaste ma non dissimile per modalità ed esito.

Oggi il termine che usiamo per queste situazioni non è più desaparecidos ma enforced disappearance, sparizioni forzate, termine legale per descrivere le storie di chi scompare alla vista dei suoi familiari o della sua comunità, secondo la definizione del “Corriere della Sera “dopo che un membro delle forze governative (o qualcuno che agisce per suo mandato ma, io aggiungo, anche senza mandato,)  lo ha rapito negando di averlo fatto o rifiutando di dire dove sia”. La maggior parte delle vittime non viene ritrovata.

Voglio ricordare che questo è un crimine contro l’umanità, lo prevede l’articolo 7 dello Statuto per la costituzione del Tribunale Penale Internazionale del 17 luglio1998.

Il caso di Giulio Regeni non è isolato. Infatti, prima ancora che venissero pubblicati dal “Corriere della Sera” i 396 nomi di desaparecidos egiziani dall’agosto 2015 ad oggi, di sparizioni  ci avevano parlato gli attivisti di una Ong del Cairo, auditi dal nostro comitato, che ci avevano chiesto di tenere l’audizione a  livello informale e soprattutto di mantenere l’anonimato, per paura di ritorsioni al ritorno in patria.

Vero è che l’Occidente ha accettato di buon grado il regime autoritario di Al Sisi in quanto “secolare”: duro con gli islamisti, in particolare con i Fratelli Mussulmani, e rassicurante verso i cristiani. La fortissima repressione attuata dal Cairo ha cancellato ogni spazio di dissenso ed ha praticamente equiparato la critica pacifica al terrorismo. Io non posso dimenticare  l’uccisione di Shaimaa El-Sabag el-Sabbagh, giovane attivista del partitoAlleanza Popolare Socialistaegiziano, una poetessa che credeva nei valori della libertà e dello Stato laico.

Certo la questione dei diritti umani non si limita ai fatti che la cronaca pone in evidenza.

Ricordo che il Comitato per i Diritti Umani e la Commissione esteri hanno fatto diverse audizioni: abbiamo incontrato e ascoltato il dissidente Mustafa Dzhemilev, leader del popolo tataro, sulle violazioni dei diritti umani nella Crimea occupata, sulla quale è sceso un silenzio impressionante; Shin Dong-hyuk, una delle poche persone che sono riuscite a fuggire da un campo nordcoreano. Abbiamo ascoltato esponenti di Ong che si occupano di violenza sulle donne nei conflitti e degli stupri usati come armi di guerra. A proposito di violenze su donne e bambine

non possiamo non ricordare, denucniandole come grave violazione dei diritti umani le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni precoci e forzati, pratiche che seguono i percorsi migratori e che quindi si diffondono in Europa, in Italia…

In questo breve excursus non può mancare un tema che interroga le nostre coscienze: la pena di morte, troppo importante e che meriterebbe una trattazione a parte. Voglio solo ricordare con orgoglio che la prima risoluzione ONU per la moratoria sull’uso della pena di morte fu adottata su iniziativa dell’Italia e della UE nel dicembre 2007. Ora siamo alla quinta risoluzione (dicembre 2014)  e, rivendicandone il merito, ministro degli esteri italiano ha scritto che si tratta di “un successo per l’Italia e i diritti umani”.

E’ evidente da queste premesse che il tema della promozione e protezione dei diritti umani non solo è attualissimo ma richiede urgenti risposte.

Nel provare a risolvere le questioni internazionali che ruotano attorno ai diritti umani, quale “teoria” delle relazioni internazionali ci può essere d’aiuto, l’idealismo o il realismo? Si potrebbe scorgere una contrapposizione tra l’imperativo etico dei principi e il limite realista degli interessi, ma forse non è inevitabilmente così.

E ci aiuta a pensare in termini diversi la spiegazione dell’origine dell’interrogativo sui diritti umani proposta da Daniel R. Mahanty (che dirige l’Office of Security and Human Rights at the U.S. Department of State in the Bureau of Democracy, Human Rights and Labor) in un saggio del 2013 intitolato “Realists, Too, Can Stand for Human Rights” nel quale dice che vale la pena ricordare che il  concetto di diritti umani è emerso quando gli Stati sovrani hanno sentito la necessità di stipulare accordi per proteggere i propri cittadini in Paesi stranieri, quindi un concetto molto “realistico” e concreto.

Ma questo tipo di realismo, il realismo dell’origine non sempre si è confermato nella storia di questi decenni. Siamo stati testimoni di tante situazioni in cui il mantenimento dei buoni rapporti fra Paesi ci ha fatto chiudere gli occhi di fronte a gravi casi di violazioni dei diritti umani (v. il caso dei desaparecidos argentini tra i nostri connazionali).

Si pone quindi con forza il tema del nostro agire, al di là delle affermazioni di principio. La sfida sta nel coniugare, ad esempio, culture diverse e diritti universali, libertà e sicurezza. Tema quest’ultimo che si è posto soprattutto dopo la tragedia delle Torri gemelle, quando fu teorizzato ed ampiamente accettato il concetto della rinuncia ad una parte, ma quanto grande?, delle libertà individuali in favore della sicurezza, sia personale sia collettiva.

Il tema si è riproposto recentemente dopo gli attentati di Parigi con la sospensione unilaterale da parte del governo francese della CEDU, la Convenzione Europea per i Diritti Umani, e con la proposta di cancellazione della nazionalità francese ai responsabili degli attentati, che causò le dimissioni della ministra della giustizia Toubirà, proposta giustamente ritirata qualche giorno fa.

Oggi la situazione è ancora più complessa per la sfida che ci lancia il mondo islamico, le cui espressioni politiche, anche quelle moderate, mettono in discussione la imprescindibilità dei diritti umani, che sono tali proprio perché afferenti le persone nella loro umanità e unicità: pensiamo alla condizioni delle donne, degli omosessuali, di chi si converte ad un’altra religione…

Forse porre il problema in termini di dicotomia impedisce di vedere una possibile soluzione e neppure aiuta il dogmatismo ideologico. Non dobbiamo essere dogmatici ma nemmeno “agnostici”, se vogliamo per davvero difendere i diritti umani, proteggerli e promuoverli, cosa che di certo è fuori discussione.

E’ certo che il tema della protezione dei diritti umani sconti una generale e palese “fatigue” dovuta a molti fattori. Ne cito solo alcuni: gli esiti disastrosi dei tentativi di esportare la democrazia (e i diritti); le delusioni derivanti dalle tradite aspettative delle cosiddette Primavere arabe; le ipocrisie nei rapporti con interlocutori “imprescindibili” (basti menzionare la Cina, la Russia, l’Arabia Saudita).

Ma se i diritti umani hanno perso parte del loro appeal, è invece sempre più attuale una seria riflessione come….inaspettato elemento di realpolitk.

Se ancora 20-30 anni fa la negazione totale dei diritti produceva un output rassicurante sotto il profilo della sicurezza, è innegabile che ora non funziona più. Infatti secondo molti analisti c’è almeno un elemento delle Primavere arabe che è probabilmente irreversibile e potenzialmente contagioso per il resto del mondo: la dimostrazione del fatto che i movimenti popolari, perfino se “spontanei”, possono rovesciare i regimi. Gli autocrati non hanno più la stessa sicurezza di un tempo e questo o li spaventa o, forse meglio dire e li induce a premere in modo parossistico sulla leva della repressione come nel caso dell’Egitto di Al Sisi o della Siria di Assad.

A mio parere la via percorribile è quella di mantenere una relazione forte, una tensione fra etica e realismo, quella di operare concretamente sulla base dell’etica dei fini e del realismo dei mezzi, tenendo aperti canali di comunicazione anche con le parti, gli attori, gli Stati che ai diritti umani sembrano indifferenti quando non ostili.

L’idea della costruzione di un consenso graduale è una proposta realistica che tra l’altro ci viene da qualche tempo suggerita da alcune donne islamiche, convinte attiviste dei diritti umani, che ci hanno chiesto di rispettare i loro “ritmi”, poiché come loro stesse affermano “le rivoluzioni non ci aiutano….ma l’inesorabilità dei passi e la certezza della direzione, questo sì, serve”.

Ma quali possono essere le nostri azioni concrete?

Come tenere insieme principi, obiettivi, relazioni e interlocuzioni?

Avanzo qui due proposte: una diretta al rappresentante speciale dell’Unione europea per i Diritti Umani: rendere obbligatoria per ogni presidenza UE l’organizzazione della conferenza interparlamentare degli organismi che si occupano di Diritti umani dei diversi parlamenti. L’attuale presidenza olandese non lha prevista.,

La seconda ci riguarda come Comitato Diritti Umani e come Commissione esteri della Camera: potremmo avviare uno scambio, anche di visite, con le Commissioni esteri di altri Paesi dove è presente “la sofferenza” dei diritti umani e insieme una certa disponibilità al dialogo, anche determinato da relazioni già esistenti in altri ambiti.

Ad esempio potremmo dialogare con l’Iran sui temi della pena di morte (quasi mille esecuzioni nello scorso anno) e dei diritti delle donne, con riferimento ad esempio alla ratifica della Cedaw, la Convenzione per l’Eliminazione delle discriminazioni contro le Donne; o la Tunisia, con cui abbiamo da poco avviato una collaborazione tra i due parlamenti, dove l’omosessualità è ancora un illecito di carattere penale; o con la Turchia dove la libertà di stampa, di espressione, di critica al governo o al Presidente sono repressi pesantemente attraverso la chiusura di giornali, l’imprigionamento di giornalisti, di intellettuali e di accademici, o con l’Egitto.

E’ un tentativo,  non possiamo accontentarci di parole e di buone intenzioni.

Quindi proponiamo qui una relazione “forte” tra commissioni estere, un canale aperto di comunicazione e confronto, anche …vivace, se del caso, sul tema del rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali, dell’espressione del dissenso politico….

E’ un tentativo ma credo ne valga la pena.

Termino ringraziando, oltre ai colleghi e colleghe che daranno il loro contributo, i nostri relatori, che presento:

Guido Raimondi, giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dal 2010 ed attuale Presidente della medesima. Lo ringraziamo doppiamente perché ha rinunciato alle sue ferie per essere con noi.

Stavros Labrinidis, nominato dal Consiglio d’Europa rappresentante speciale dell’Unione europea per i Diritti Umani con il compito di rafforzare l’efficacia e la visibilità delle politiche Ue sui Diritti umani.

Enrico Calamai, ex diplomatico, console a Buenos Aires tra il ’72 e il ’77, ora portavoce del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos.