L’anticipazione del saggio di Elisabetta Santori, “Appunti per un pensiero de-genere”, apparsa qualche giorno fa su Micromega, stigmatizzava le dimensioni assunte dalla querelle sul sessismo linguistico. L’autrice rilevava “derive ideologiche che stanno ormai devastando il femminismo e anche la lingua italiana” e affermava che “Guide” e “Raccomandazioni”, oltre a essere “di fatto coercitive”, rischiano di trasformare il linguaggio “in un idioma artificiale, pianificato a tavolino … e di infilare il burqa alla spontaneità e alla funzionalità del linguaggio”.

Queste affermazioni obbligano a qualche riflessione, anche in dissonanza con la saggista, considerata la funzione strutturante e “agente” del linguaggio. Ci piaccia o no, siamo fatti di parole, che sono “strumento di molta delicata amministrazione”, anche perché la lingua influenza il pensiero.

Santori scrive che “a decidere della lingua e del genere grammaticale .. è .. anche l’orecchio collettivo, una sorta di … deposito storico di rimandi, associazioni mentali”: pienamente d’accordo (tranne che sul distinguo tra “sessismo italiota” e “orecchio collettivo” per i quali, invece, verrebbe da affermareplus ça change, plus c’est la même chose” …). Proprio per questo, sembra necessario riflettere “a tavolino”, su certi “automatismi” (che, a ben considerare, tali non sono) della lingua (e quindi del pensiero, e quindi del comportamento). Il linguaggio, si sa, è un sistema altamente strutturato che reca con sé le “leggi” della storia da cui risulta inevitabilmente condizionato, e quindi, ne riflette i rapporti di potere, inclusi gli stereotipi di genere …“de-genere”, che allignano in esso e contribuiscono a mantenere, e rafforzare, tali rapporti. Indizio banale, ma non troppo, è quello del (numero) plurale, che nel binomio maschile-femminile fa prevalere la forma maschile mentre il femminile viene fagocitato/annullato, nel numero e nel genere: una regola grammaticale, questa, che riflette una “grammatica” della vita che trova applicazione in quella pragmatica dei rapporti umani che, per dirla con John Langshaw Austin, sa “fare cose con le parole”.

L’orecchio collettivo di cui scrive Santori, sembrerebbe rimandare a un ordine simbolico che trova il suo naturale habitus nella “spontaneità” del linguaggio parlato/pensato, che risulta, allo stesso tempo, condizionato e condizionante, “gnommero” di notevoli proporzioni e grovigli. Il nodo gordiano che ne deriva è vecchio di secoli, e per scioglierlo serve proprio il vituperato “tavolino”, non potendo contare né sull’utilità della “soluzione alessandrina, né su una “spontaneità della parola,”che, forse, si troverebbe a parlare/ragionare à vol d’oiseau. Nell’”orecchio collettivo” le disimmetrie semantiche prosperano, “spontaneamente”, e più della gramigna nei campi: l’aggettivo “pubblico”, a esempio, assume un diverso significato a seconda se sia riferito a una donna o a un uomo; e lo stesso accade con “facile”, “libero”, e così via …“pregiudiziando”.

Si sa, il linguaggio è tutt’altro che neutro, anzi, “non è mai innocente”, scrive Roland Barthes: quando si tratta di femminilizzare i mestieri, procede secondo “grammatica”, cameriere/cameriera, contadino/contadina, servo/serva, parrucchiere/parrucchiera…; anche “maestro” femminilizza con “maestra” – seppur includendo nei due termini una disimmetria semantica (maestro/Maestro, maestra/maestra) che si riscontra, a esempio, anche in Segretario/segretaria (sarà per questo che Camusso ama definire il suo ruolo al maschile e non al femminile …?) – ma, appena si sale sul versante della … tracimazione culturale (l’audace “straripamento” femminile in argini sociali di tradizionale appannaggio maschile) la femminilizzazione precipita rovinosamente sulla ridondanza ironico-cacofonica degli “essa”: vigilessa, presidentessa, deputatessa, avvocatessa… Termini che, tra l’altro, sono pure scorretti dal punto di vista grammaticale: “vigile” è un aggettivo sostantivato, e come tutti gli aggettivi terminanti in “e” rimane invariato, la differenza di genere si evidenzia semplicemente con l’anteposizione dell’articolo, femminile o maschile; stessa cosa per “presidente, che deriva dal verbo presiedere, è un participio presente, e rimane anch’esso invariato; “deputato”, è participio passato di deputare, dunque si femminilizza con una semplice “a”; idem per “avvocato”.

Sempre a proposito di “essa”, si ricordino le maliziose disquisizioni linguistiche che hanno accompagnato l’ingresso delle donne al governo (“ministra” o “ministressa” … ?), e quel noto personaggio politico il quale, a proposito di certi meccanismi elettorali a garanzia delle donne, ha parlato di “collegi a due piazze”… E’ evidente che l’“utilizzatore finale” di certi meccanismi linguistico-concettuali, è un “ordine simbolico” che confina il genere femminile nell’ambito del corpo e della sessualità (o, quando va bene – si fa per dire … – della cura familiare), per cui, ogni situazione che veda la donna al di fuori di queste sfere viene considerata accessoria, se non addirittura negativa e dunque variamente stigmatizzabile. Da qui gli stereotipi linguistici, le disimmetrie semantiche, i pregiudizi di genere, che il “burka” l’hanno in sé, e lo “infilano” alle donne, sulla scorta di un “orecchio collettivo” che, nei secoli, è rimasto incollato al detto di Menandro: la virtù delle donne finisce sull’uscio di casa”.

Pedanterie inutili”? E’ incontestabile il fatto che, ancora oggi, “le modalità di comunicazione, anche su internet, evidenzino sessismo e asimmetrie sessuali” (Cameron Marlowe).

Pianificazione a tavolino” di un “idioma artificiale”? Col tempo, e con tanti “tavolini”, l’”artificiale” potrebbe diventare naturale. E questo, renderebbe il linguaggio autenticamente funzionale alla comprensione/comunicazione della realtà effettiva.

Impegnarsi per cambiare la lingua è seria azione politica.

* Zina Crocè: Giornalista, Saggista. Esperta di Gender Mainstreaming. Autrice, tra l’altro, del saggio “Decodifica di stereotipi e pregiudizi di genere” (in “Donne, Politica, Istituzioni. Percorsi, esperienze, idee”, Aracne, 2009); e del “Codice di Autoregolamentazione per l’impatto di genere nei Media” (in Libro Bianco “Women and Media in Europe”, Censis 2006 / e in “Analisi e tendenze della donna in Calabria”, Rapporto Eurispes 2004 ).