58365-locandina-sensibile-comune-510Dal 14 al 22 gennaio 2017 la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma ha ospitato la mostra Sensibile comune. Le opere vive a cura di Ilaria Bussoni, Nicolas Martino e Cesare Pietroiusti, autori del Manifesto della mostra.

Deve l’estetica dell’arte essere militante? La questione è altra e più radicale.  Mariasole Garacci scrive: se si riconosce che l’arte ha il potere di asserire enunciati a prescindere dalle intenzioni del singolo artista e dalle circostanze della sua creazione, semplicemente per la sua duplice natura di idea e oggetto e per la facoltà di attraversare i piani del reale e della finzione, trasportando a ogni passaggio sensi, significati e inusitati percetti, si capisce che tali enunciati hanno una consistenza speciale, sono mine vaganti pronte a scoppiare, a deflagrare. Sono, come li ha definiti Jacques Rancière, dei “quasi-corpi” la cui circolazione “determina delle modificazioni della percezione sensibile del comune”. Sono, insomma, in grado di modificare il sensibile e trasformarsi in strumenti di lotta e di libertà.
Questi quasi-corpi, per citare ancora Rancière, “hanno effetti sul reale: definiscono non solo dei modelli di parola o di azione, ma anche dei regimi di intensità del sensibile. Generano delle mappature del visibile, dei percorsi di connessione tra visibile e dicibile, delle relazioni tra modi di essere, modi di fare e modi di dire. …
Occorre dunque un nuovo e radicale sguardo sul fenomeno artistico, incentrato sulla variazione che questo imprime al sensibile, e sulla sua ricezione nel riguardante. E’ utile accogliere il lascito di Duchamp, la chiave del ready-made che non tanto affermava una nuova espressione artistica ma concettualizzava ciò che sempre era stato proprio dell’arte in ogni epoca, ossia la dimensione del possibile, il potere di spostare sensi e idee dal campo dell’immaginazione a quello del reale e viceversa e di creare percetti, proprio come la filosofia crea concetti. Il potere di affermare qui e ora che “questo è arte”, che qui e ora l’inesistente e il solo pensato esiste e prende corpo, facendo scoprire all’individuo che è soggetto, e come tale libero e in grado di modificare il reale e le sue gerarchie…

Riflettendo su tutti questi temi, i curatori di Sensibile comune. Le opere vive hanno provato innanzitutto a smontare alcune abitudini della fruizione tipica di un museo statale e a creare delle occasioni di corto-circuito tra lo spettatore e le opere che questi è normalmente abituato a osservare in contemplazione più o meno passiva, allo scopo di cercare nuove modalità di esperienza e attivare la percezione, ossia rientrare nella piega alla radice di quella aisthesis che originariamente ci connette con il mondo circostante. Scopriremo, inoltre, che arte e attivismo possono incontrarsi anche in un museo, giocando sulla variazione e la moltiplicazione di sensi e significati, sull’invenzione e l’inclinazione di diversi piani di moto percettivo. Le opere, ad esempio, possono cambiare di posto e di ruolo. Possono prestarsi ad essere usate, annunciano i curatori della mostra, come “vettori di un confronto, voci tra altre voci, pre-testi per altre opere, che a loro volta saranno pensate, invece che come risultato finale del processo, come strumenti per passaggi ulteriori, opere all’ennesima” (in questo senso è da intendere anche l’attuale e molto discussa mostra-allestimento Time is Out of Joint della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea….

Anche l’opera la cui integrità materiale si è corrotta, ma che per la specificità del suo statuto artistico permane nella sua unità, unità che non è mai un totale di parti e la cui potenzialità continua a sussistere, può essere interpellata in relazione alla resistenza del suo essere artistico. L’opera “rotta” è un’opera “aperta” che disvela la sua materialità e il suo inganno, il lato fragile della sua consistenza… a ragionare sul tema della irriducibilità dell’opera d’arte e della cura del suo supporto materiale Carolyn Christov-Bakargiev, Annarosa Buttarelli, Tarek Elhaik riuniti in una tavola rotonda con i restauratori della Galleria  il 18 gennaio 2017

sovranePubblichiamo il testo dell’intervento svolto da Annarosa Buttarelli

Il dibattito contemporaneo nell’ambito delle arti ha trovato nel tema della “cura” un terreno aspro di confronto, sia perché il tema stesso è cruciale per la ridefinizione dello stare al mondo insieme agli altri e alle altre, sia perché la curatoriaità dei professionisti si scontra con la volontà di molti artisti di rendere, esplicitamente, incurabili le loro opere. Questo si mostra, in parecchi casi, come una volontà di dissolvimento del concetto stesso di arte, oltre che, pare di intuire, della ricusazione del concetto di cura, usurato, in ambito artistico, dall’innegabile protagonismo narcisista di molti curatori (e qualche curatrice) museale. L’incurabilità dell’arte diventerebbe dunque uno dei gesti rivoluzionari che stanno cercando i movimenti politici anti-istituzionali.

Il tereno dell’arte, come si sa, è un terreno decisivo per i mutamenti delle culture e perciò è da osservare con molta attenzione il dibattito in corso, proprio per la centralità che vi ha assunto la parola “cura”. In questo come in molti altri casi, a mio giudizio, biogna sempre aiutarsi a leggere quello che accade con le chiavi trovate nel percorso storico del femminismo della differenza, chiavi che si sono rivelate in grado di accompagnare i processi di trasformazione in corso nel presente.

Bisogna guadagnarsela la posizione dell’incurabile, inteso come non-normalizzabile perché letture, storia e testimonianze dicono che l’incurabile è il non previsto, né prevedibile, in nessun luogo. L’incurabilità è un valore, nel senso che rende impossibile ogni terapia protocollare che ambisce a “guarire”, ma non esclude affatto il curare, il prendersi cura, anzi lo esige come forma di relazione che custodisce e preserva e fa sbocciare ciò che di “incurabile” è proposto dalla novità storica.

In questo senso i contributi del pensiero femminista sono imprescindibili, poiché, nel marasma contemporaneo, hanno intercettato concetto e pratiche della cura e ne hanno fatto una riflessione dirimente. Ovunque ci sia il desiderio di trasformazione. Qui in Italia abbiamo il lavoro di Letizia Paolozzi, racchiuso nella pubblicazione Prendersi cura, (et al. ed.), i risultati della ricerca del Gruppo del Mercoledì di Roma; poi Carol Gilligan ha scritto La virtù della resistenza (Moretti&Vitali ed.) dove fa della cura la parola-chiave che può salvare la democrazia. Opportunamente, il femminismo della differenza propone, a scanso di fraintendimenti in senso terapeutico, di convogliare gli sforzi sulla pratica, sul prendersi cura, piuttosto che sul solo concetto, che in effetti è ambiguo. E poiché le pratiche richiedono presenza, comportamento, senso del’alterità e efficacia, ritengo dirimente ai fini del sovvertimento dell’esistente desiderato dai movimenti, il cambio di prospettiva che offre la posizione del prendersi cura come pratica principale di chi vuole essere oggi una novità imprevista.

Infatti, nel mondo contemporaneo il vero problema che origina molti disastri è rappresentato da tutto ciò che aggredisce le relazioni e le rende impossibili. E non mi riferisco solo alle relazioni tra umani, ovviamente. Al presente, il problema è che non si è più in grado di immaginare positivamente né tantomeno di comporre le relazioni e questo è certamente un problema cruciale di democrazia). La vita stessa è relazione e perciò è imprescindibile individuare il campo del prendersi cura come il campo radicale in cui dobbiamo far confluire esperienze, invenzioni, passaggi teorici dello studio delle trasformazioni. Se la politica delle relazioni, come dice il femminismo, è la vera politica, allora dobbiamo reinventarla e intenderla anche come radice stessa della vita. Questo lo possiamo dire noi donne perché abbiamo fatto la differenza tra i termini, in modo da non fare il giochino delle tre carte con il concetto di cura.

Lo possiamo dire, perché nel mondo le uniche vere incurabili siamo state noi donne, non siamo mai state normalizzate in tutto il corso della storia che ci precede. Semmai oggi è il tempo più pericoloso: oggi c’è la più potente offensiva verso l’incurabilità femminile e la spinta feroce verso la normalizzazione della presenza femminile che sta entrando in tutti i luoghi della vita pubblica. Speriamo che le donne non si pongano il problema della propria terapia, ma continuino infaticabili a porre il problema del prendersi cura, cioè a tenere ferma la centralità delle relazioni. Si tratta di ritrovare politicamente la necessità di praticare nuovi concetti: l’attenzione profonda, assicurare la responsabilità nelle relazioni, cercare la bellezza del prendersi cura di ciò che vive o che sta per non vivere più, ecc. Ritornare alle origini dei significati che rendevano possibili le relazioni.

Nel mondo dall’arte da cui è partito questo discorso, trovo interessante il richiamo che gli artisti rivolgono ai curatori (e forse ai restauratori): non vogliono più che “curatorialità” voglia dire appropriazione del lavoro artistico per il proprio successo personale, o per promuovere le proprie “pensate”. Vogliono che si concluda l’epoca del protagonismo del curatore e del critico. Bene. Il punto è che tutto questa “riduzione” della cura sembra non essere a favore delle opere, il cui narcisismo negativo si propone invece come “l’artista distrugge la sua opera così l’opera vivrà per sempre nel desiderio suscitato dalla sua assenza”.

Non mi sta bene, perché con la curatorialità si butta sia l’arte sia il prendersene cura, sia il desiderio di bellezza (una parola che non si deve temere di riprendere). Ho, di conforto, l’esempio del lavoro della nuova direttrice della Galleria Nazionale, Cristiana Collu che, nelle sua dichiarazioni d’intenti, per il riallestimento della galleria e per le mostre che ospiterà, dice: “Sono stata in ascolto, ho scelto un certo silenzio carico di forza… ho provato a accordare gli strumenti prima di inziare a suonare… ho cercato di ritrovare lo spirito di questo luogo.” Si è fatta da parte, ha ascoltato, si è presa cura del luogo e delle opere ospitate.

Forse non si potrà né sottoporre a terapia, né si potrà prendersi cura del rapporto tra artisti, artiste e critici d’arte. Può darsi che questo rapporto, in fase di discredito di ogni schema interpretativo, resti, in tutti sensi, incurabile. Ma la curatela è una posizione imprescindibile perché può essere ripensata come luogo di ricostruzione della relazioni. Può diventare il luogo del prendersi cura delle arti, come mediazione tra esperienza artistica e sua leggibilità comune, ad esempio.

Anche l’arte troppo sofisticata e troppo autoreferenziale ha a che fare con l’attuale recrudescenza del populismo. Lo vediamo in America a occhio nudo: c’è una radicalità del movimento informale popolare contro le élites (anche artistiche) che si sono rese in gran parte incomprensibili all’accesso comune, e che hanno bisogno di mediazioni per potere avere una leggibilità. Per essere chiara: a mio giudizio la curatela è il lugo dove si possono trovare le mediazioni tra il bisogno di “bellezza” (anche inconsapevole) e la sperimentazione artistica. Si dovrebbe avere inteso che è vano “épater le bourgeois”, e che non è buona cosa politica “épater le peuple”. Forse davvero sarebbe bene che movimenti politici avessero la disponibilità ad acquisire che, anche oggi, le vere incurabili sono le donne che agiscono e pensano autonomamente, anche dai movimenti stessi: riuscirebbe uno scambio esplosivo.