Intervento al convegno promosso da Donne in Quota alla Casa della Cultura di Milano il 19 ottobre 2015

Il contrasto alla tratta e allo sfruttamento della prostituzione, è cosa che chiama in causa la politica e i singoli politici, ma che purtroppo proprio grazie ai politici, e alla raccolta del consenso elettorale, si arena su un angusto dibattito sulla legalizzazione delle attività mercantili che hanno per oggetto prestazioni sessuali. Un dibattito non sempre aperto ed informato e per lo più relegato su un‘idea astratta della prostituzione e delle donne che si prostituiscono. Dibattito incurante della sconfitta umana e politica che queste rappresentano e per di più affidato a sortite di sindaci o a singoli che invocano anche nelle aule parlamentari fumosi motivi per “modernizzare la legge 75- Merlin”.

La legge Merlin sancisce pochi e chiari principi: le donne che si prostituiscono non possono essere costrette a farlo, né come tali possono essere schedate, e chi le sfrutta, le induce a prostituirsi o lucra usandole come merce di scambio affaristico commette reati e illeciti di rilevanza penale.

Lo stato delle cose parla non di inattualità della legge Merlin, ma di una sua quasi totale inapplicazione. Il perché di questo è scritto nella protervia con la quale ancora tanti uomini rivendicano il diritto a un presunto naturale bisogno di fare sesso a scadenza regolare, indipendentemente da una relazione reciproca. La volontà di smontare il principio di libertà femminile sancito dalla legge, si è espressa nell’immediatezza dell’approvazione della legge, e l’opposizione successiva è stata più efficace di quella espressa nelle sedi proprie. Si è descritta l’abolizione delle case chiuse come una sventura: lì si diceva veniva esercitata una tutela verso le donne e, si diceva, grazie alle case, era scomparsa della “piaga delle prostituzione di strada”.

Vigente il regime dei bordelli di stato, non solo non era scomparsa la prostituzione che i benpensanti usano e non gradiscono vedere, ma la tutela delle donne era bensì quella della salute degli uomini. Le donne nelle case chiuse venivano picchiate, ammalate, rese folli e uccise ugualmente. La casa, oggi lo sappiamo, nasconde molta della violenza maschile e impedisce la fuga di chi ne è vittima.

Il fatto che progressivamente, nei paesi che regolamentano e depenalizzano l’impresa fondata sulle attività sessuali, dove per altro sono in atto ripensamenti e riconsiderazioni, in Europa, le prostitute native siano progressivamente sostituite da immigrate provenienti da paesi interessati da forti correnti emigratorie è un fatto che, mostrato per quello che è, non può che ricondursi a un tipo di arruolamento perpetrato con circonvenzione, inganno, ricatto e coercizione fisica.

Affrontare la complessità delle risultanti con interviste occasionali o con organizzazioni autoelette a portavoce delle donne prostituite, significa perdere il senso della dimensione e della portata di un fenomeno politico non troppo lontano dal consolidarsi: la rimaterializzazione della schiavitù.

La crisi mondiale della distribuzione delle risorse e la restrizione delle aree di lavoro garantito per le donne, senza voler ricorrere ad alcuna ipotesi di complotto contro la crescita di potere femminile, fanno da contesto alla riproposizione della prostituzione come sbocco professionale per le donne: discutere di questo significa svelare una parte della concezione dalla quale molti regolamentatori e fautori delle imprese del sesso a pagamento prendono le mosse.

Se pure gli stessi proponenti si richiamano a una volontà di contrasto alla tratta, non sembra che nell’attualità si possano rintracciare atti concreti in direzione del contrasto ala tratta.

È stato denunciato il taglio dei fondi antitratta, almeno da parte dell’Italia, e ancora in Italia, è sotto gli occhi di tutti ma visibile solo a chi vuole, lo sdoganamento ufficiale del comportamento dei consumatori di sesso a pagamento e dei loro fornitori, sfruttatori per la legge Merlin.

Il contesto nel quale si fa la discussione di oggi, richiede lucidità e determinazione, e soprattutto grande senso di responsabilità di fronte alle migliaia di donne migranti invisibili sia nei numeri dell’emergenza e sia nella rappresentazione mediatica. La loro visibilità è affidata alla presenza dei bambini o di neonati, e la loro presenza nei centri di accoglienza è documentata solo in casi di conclamata violenza. Invocare criteri di accoglienza commisurati al rischio di riduzione in schiavitù sessuale, è un obiettivo da affermare con urgenza da parte del movimento delle donne, nella consapevolezza che le emergenze dissimulano la prospettiva delle differenze all’interno di un dramma collettivo.

La realtà risultante dall’inerzia applicativa delle norme, e dalla volontà nascosta ma prepotente di rifornire il mercato sul quale le donne sono la merce per antonomasia, sulla quale tutti possono informarsi è fatta di numeri che renderebbero superfluo il dispendio di energie sull’argomento “regolamentazione”: il novanta per cento delle donne che si prostituiscono nelle strade e nei bordelli d’Europa sono vittime di tratta e solo un dieci per cento potrebbe riferirsi a quella prostituzione volontaria (percentuale comprensiva di quel sei per cento di uomini che si prostituisce) oggetto della regolamentazione che vorrebbe intervenire sul fenomeno.

Ma evidentemente, quella presunta quota di volontarietà, nella mente dei politici locali e nazionali, è sufficiente a giustificare la depenalizzazione dello sfruttamento e la restaurazione di un regime di controllo sul corpo e la sessualità femminile.

È importante sottolineare, a proposito della così detta prostituzione volontaria, che nei paesi che legalizzandola la nominano come “sex work”, si è osservato che i luoghi di esercizio delle attività del dieci per cento di presunte autodeterminate sono vettori per le imprese che arruolano donne con metodi criminali, ovvero per il novanta per cento. I protettori, divenuti imprenditori, esercitano comunque attivamente la loro funzione, perché il rapporto col cliente è prevedibilmente violento, tanto che è comune l’installazione nelle case il “panic botton” per chiedere aiuto, ovviamente al lenone stesso. Negli stessi soggetti dell’impresa legale del sesso a pagamento è ben chiaro quanto sia utopistico pensare a uno scambio non violento tra cliente e prostituta. La prostituzione come servizio per uomini disagiati, nella quale la donna si dovrebbe trovare in una posizione di potere è una vera e propria mistificazione, un’altra discussione fuori contesto e parlare d’altro, mentre migliaia di donne in ognuno dei paesi europei sono oppresse ed uccise lentamente o freddate.

Meraviglia, immerse in una dimensione risultante da lotte per l’affermazione della libertà sessuale femminile, che qualcuno possa anche solo pensare “alla libertà di vendere una merce/corpo” sottoposta ad esami polizieschi e controlli sulle prestazioni. Il femminismo ha finalmente stabilito una volta per tutte che il prostituirsi una volta non fa di una donna una prostituta e la legge Merlin una volta per tutte ha stabilito il divieto di schedare le donne in base alla libera espressione delle loro facoltà sessuali. Nella nostra democrazia incompiuta e continuamente immobilizzata da nostalgie più o meno interessate, i rischi del perseguimento di ordine e decoro su una fenomenologia che è la massima rappresentazione della dispersione umana nel nuovo ordine economico, non riguardano una parte ma tutte le donne.

Se la prostituzione è considerata, a livello mondiale, una delle forme della violenza sessuata, nella Convenzione di Istanbul si stima che, nel lavoro forzato, il novantotto per cento delle vittime sono ridotte in schiavitù sessuale e che in maggioranza sono donne, il dibattito presente è quanto meno estemporaneo. La punizione, anche, del cliente in questa prospettiva non esige particolari spiegazioni, è la logica conseguenza del rendersi complici del trafficante attraverso il pagamento per servizi procacciati con mezzi criminali, come è di pubblico dominio. A meno di non voler affermare un modello sociale nel quale la compulsione sessuale maschile abbia priorità sui diritti delle donne.

I differenti disegni di legge che insistono sulla, impropriamente detta, materia prostituzione sono molti. Tra i più rappresentativi quello così detto “Spillabotte” (dal nome dalla principale relatrice) tendente ad istituire il così detto zoning, articolato sull’accertamento della volontarietà con criteri che sollevano forti dubbi circa attuabilità ed efficacia e che intende abrogare la legge 75 liberalizzando così il lucro di terzi sulle prestazioni sessuali. Il secondo più rappresentativo è quello a firma Maturani incentrato sul contrasto alla tratta e tende al riconoscimento del reato di “prostituzione coatta” e soprattutto non stravolge i principi della legge Merlin.

Insistendo sulla stessa materia, la domanda che dobbiamo porci è su cosa produrrà il lavoro della commissione parlamentare incaricata all’elaborazione delle proposte. La possibile se non l’unica risposta è quella di continuare a far presente la proposta nata dal movimento delle donne incentrata sul modello nordico.

Al momento, non bisogna dimenticare che la legge 75 è legge dello stato e che punisce l’istigazione alla prostituzione. Per questo la prossima settimana verrà depositata alla procura la denuncia del comitato ad hoc verso i comuni che deliberano l’istituzione delle “zone per la prostituzione”.

Stefania Cantatore (UDI di Napoli)