Riceviamo e pubblichiamo volentieri il contributo di Anna Paola Lacatena, dirigente sociologa del Dipartimento Dipendenze Patologiche della ASL di Taranto e coordinatrice del Gruppo “Questioni di genere e legalità” per la Società Italiana delle Tossicodipendenze.

Numerosi quotidiani hanno dedicato articoli – spesso nella sezione “Spettacoli” – alla vicenda che vede coinvolto Till Lindemann, frontman dei Rammstein, tra le più importanti band tedesche, travolto da quello che è stato ribattezzato il MeToo del rock.

In sintesi, una giovanissima ammiratrice ha preso contatti, preliminarmente alla partecipazione al concerto di Vilnius dello scorso maggio, con lo staff del gruppo musicale «su festini post concerto». La scelta di molti giornalisti del termine “festino” e non festa, party, ricevimento sembra già sancire, in attesa di quella penale, una sentenza morale a carico della vittima. In fondo, neanche tanto sottinteso, è lei ad aver preso contatti su questa particolare tipologia di ambienti ricreativi, quasi per definizione a base di droghe e alcool.

La ricostruzione di quanto presumibilmente accaduto prosegue con l’offerta di alcool da parte di qualcuno dello staff e la possibilità di occupare la prima fila del concerto. In alcuni video della serata postati il giorno dopo, la giovane è raccontata come “palesemente fuori controllo” già durante lo show e consapevole di fare “qualcosa di sbagliato”, mentre qualcuno la trascina in una saletta sotto al palco.

In quell’essere “palesemente fuori controllo” sembra essere ribadita un’implicita responsabilità da parte della vittima che a questo punto, dunque, si fa doppia: i contatti per il festino e lo stato alterato.

Nonostante la giovane abbia dichiarato di non aver dato adito alla possibilità di una sua disponibilità a un incontro sessuale con il musicista, questo, infuriatosi, le ha intimato di restare nella sala. Da lì ciò che sarà appurato per lei e per altre donne – oltre dodici – che a loro volta hanno mosso delle analoghe accuse nei confronti della rock star tedesca.

La ricostruzione dell’episodio si arricchisce di inquietanti particolari in quanto pare esista un componimento poetico (?) in cui il cantante abbia esplicitamente espresso la sua predilezione per donne inermi, meglio se stordite dal Rohypnol.

Il Lindemann, sempre secondo quanto riportato da numerose testate giornalistiche, ne avrebbe costruito un vero e proprio sistema per attirare le gropies, neutralizzarle con la cosiddetta “droga dello stupro” e abusare di loro.

Al di là di quanto sarà appurato dagli organi competenti ma già a favore di una comprensione non moralistica e dell’estremo bisogno di non alimentare narrazioni improprie, almeno quanto comuni e diffuse tra i media nostrani, si fanno necessarie alcune precisazioni: “festino” non deve necessariamente far rima con abuso e violenza, nella mente di chi riporta un episodio di questo tipo e in chi lo legge. Anzi l’idea della festa dovrebbe essere quanto di più lontano dalla sopraffazione e dall’abuso.

Se anche la donna avesse assunto qualcosa questo non autorizza il resto del mondo ad abusare di lei.

Se anche la donna avesse pensato “questa cosa è sbagliata”, esprimere il proprio diniego dovrebbe comunque essere sufficiente a bloccare intenzioni altre da ciò che vorrebbe condividere – compreso il proprio corpo.

Sebbene il presunto autore di reato – tale fino a sentenza definitiva – abbia espressamente reso nota la propria predilezione per le donne inermi ciò non lo autorizzerebbe comunque a passare dalle idee ai fatti solo perché è una rock star. Al più l’outing potrebbe essere utilizzato da qualche valente avvocato della difesa determinato a rintracciare attenuanti nel campo della nosologia psichiatrica.

Il Roipnol – o Rohypnol come riportato da alcuni giornalisti – non è la “droga dello stupro” ma il nome commerciale di un farmaco regolarmente prescritto, appartenente al gruppo terapeutico degli ipnotici e sedativi benzodiazepinici, il cui principio attivo è flunitrazepam.

Utilizzato per il trattamento breve dell’insonnia nelle sue forme più gravi e disagianti per la persona, il suo utilizzo è legale e comprende anche la pre-anestesia per interventi chirurgici.

Sconsigliata e ben indicata nelle prescrizioni è l’associazione con farmaci che deprimono il sistema nervoso centrale, intensificando l’effetto depressivo.

Altrettanto raccomandato è non associarne l’assunzione in concomitanza di uso di alcool, il rischio sarebbe quello di potenziarne l’effetto sedativo, sulla respirazione e sui parametri emodinamici.

Non esiste, dunque, anche se è un’espressione usata e abusata dai media, la definizione di droga dello stupro. Al più si dovrebbe ricorrere all’espressione farmaco di cui si è fatto un uso improprio.

Questo va precisato anche e soprattutto a vantaggio di chi quel farmaco – o altri, vedi GHB, l’acido gamma-idrossibutirrico, anche questo spesso indicato come droga dello stupro – lo assume o se lo vedrà regolarmente prescritto per una patologia.

Non di meno a beneficio della cautela che il possibile effetto emulazione dovrebbe eticamente richiedere al mondo dell’informazione.

Dalla gran parte dei contributi giornalistici offerti in merito alla vicenda, si evince che l’istinto autodistruttivo che caratterizza tante storie di rockstar – in alcuni articoli pubblicati sono ben dettagliate le gesta di Manson, Turner, Cantat sia pur servendosi di carrellate un po’ troppo indistintamente omologanti – non ha niente a che fare con le pratiche messe in atto da personaggi come Lindemann che sembrano fregiarsi di particolari peculiarità come la pianificazione e la sistematicità.

La condanna nei confronti dell’ennesimo personaggio coinvolto in molestie e violenze sulle donne è pressoché unanime. Ciò che colpisce il lettore, ma ancor più ferisce la vittima e con lei le tante, troppe vittime sparse per il mondo, è sintetizzato nelle ultime righe dei vari articoli dedicati alla vicenda. Nello specifico, si va dalla segnalazione dell’iniziativa del governo della città di Berlino di vietare i party post concerto per tutte e tre le date cittadine dei Rammstein, chiudendo l’accesso alle donne alla zona antistante il palco per evitare adescamenti, alla sottolineatura (addizionata di morbosità varie) della presunta brutalità dell’offender, all’immancabile arbitrario sillogismo droga – violenza sessuale con conseguente sottinteso del tipo: hai assunto sostanze?! Che ti aspettavi che ti capitasse poi?!

Chi, dunque, a prescindere da qualsiasi grado di giudizio da aula di tribunale, subisce l’intransigente condanna morale dalla giuria di chi legge, convogliata dalla penna di chi scrive, sia pur tutti mossi dalle migliori intenzioni? La vittima.

La chiosa finale di un pezzo uscito su un quotidiano nazionale di grande seguito è esplicativa in tal senso. Il giornalista ricorda la cantante Sinead O’Connor che – pare –, quando litigò con Prince per il brano Nothing compares to you, gli sputò in faccia e lo lasciò sul posto. Rimpiangendo che il Lindemann di turno non abbia trovato sulla sua strada una donna di tale temperamento – forse se avesse assunto contestualmente alcool e Roipnol o chissà cos’altro anche Sinead sarebbe stata più vulnerabile – conclude con un ardente: «Istintiva ma non succube.»

No.

Non si può.

Sia pur mossi dalle migliori intenzioni contro stereotipi, sessismo, facili moralismi legati all’uso di sostanze (legali e illegali, assunte consapevolmente o somministrate a propria insaputa), la strada che cognitivamente donne e uomini dovrebbero percorrere è ancora lunga e laboriosa.

Soprattutto non è lastricata di istinto, indomabilità o incapacità di rispondere al tentativo di sottomissione. Dovrebbe essere segnata altresì dal rispetto, dall’empatia, dal diritto di essere riconosciute come persone in qualsiasi circostanza e in qualsiasi condizione.

Dalla possibile reclutatrice (Alena Makeeva) al qualcuno dello staff che «trascina» la fan in quella saletta, dal presunto autore di reato a chi descrive vicende di questo tipo e a chi le legge, siamo davvero lontani dalla corretta comprensione: la donna non se l’è andata a cercare, nessuna cercherebbe esperienze di questo tipo, non è la moralità presunta – o l’istintività – della vittima (donna o uomo) a poter cambiare la volontà o l’istintività del predatore (donna o uomo).

Non sappiamo condannare.

Non sappiamo difendere.

Non sappiamo raccontare.