una delle tante "case" utilizzate da migranti che lavorano spesso nelle nostre case
Una delle tante “case” utilizzate da migranti che lavorano spesso nelle nostre case

Maria sorride e i suoi occhi si fanno sottili fino a diventare due fessure da cui scivolano giù lacrime che asciuga velocemente. Poi torna ad appoggiarsi al tavolino tondo di plastica attorno al quale siamo seduti a chiacchierare. Si scusa una miriade di volte per quel salotto in cui ci accoglie: una baracca di neanche dieci metri quadrati che fa da camera da letto, cucina e soggiorno ma dove regna l’ordine. “Sono una maniaca dell’igiene!” precisa sistemando la zanzariera fissata all’unico ingresso della sua abitazione: quattro mura di cemento ricoperte da un tetto di lamiera. La sua è una delle innumerevoli creazioni abusive tirate su ai lati della statale che collega la periferia al centro di Napoli. Attorno, terreni abbandonati, orti, piccole stalle ad uso familiare e discariche illegali.

Maria è una donna rumena di 50 anni. Da 12 vive e lavora in Italia. Fa parte di quel sommerso femminile che ricade nella categoria delle lavoratrici domestiche e a cui comunemente ci si riferisce con l’espressione di “badanti”, per lo più donne straniere che si prendono cura di anziani o persone non autosufficienti. Un lavoro che solitamente pochi italiani sono disposti a fare perché ritenuto scarsamente retribuito e socialmente poco qualificante e che oggi si rende necessario perché l’attuale sistema familiare italiano non è più di tipo “allargato” e “solidale”.

La prima volta che Maria è arrivata nel nostro ambulatorio di Ponticelli, periferia nord-est di Napoli, era una mattina di fine ottobre. Il vento caldo dell’estate sembrava non voler ancora cedere il passo all’autunno. E una luce color zafferano ammorbidiva persino i profili dei grigi palazzoni popolari di quell’area, prodotto disfunzionale della grande speculazione edilizia promossa a partire dagli anni ’60 sotto il mandato dell’allora sindaco Achille Lauro. Quando è arrivata Maria, l’ambulatorio era aperto da un solo mese. Eppure si era subito sparsa la voce che in quelle zone dimenticate Emergency aveva iniziato a prestare cure di base gratuite senza far distinzione tra italiani e stranieri. Regolari e non. In pochi giorni molte persone avevano iniziato ad arrivare. Maria era nella nostra sala d’aspetto denominata “Piazza Carlo Giuliani”: una agorà al cui centro domina una pianta di ficus.

Buone prassi: Il riconoscimento del codice Eni ai cittadini comunitari

Da quel primo incontro sono passati mesi. Mesi in cui Maria ha preso a venire all’ambulatorio con cadenza regolare. Quando l’abbiamo conosciuta aveva difficoltà a muoversi. Non sapeva quale fosse il suo problema e non voleva cedere alla tentazione di credere a un medico che le aveva detto di rivolgersi a uno psichiatra perché pazza. Attraverso Emergency è riuscita ad accedere a visite specialistiche in ospedale che le hanno permesso di avere una diagnosi completa sullo stato del suo Parkinson, a ottenere il riconoscimento dell’esenzione totale dalla spesa dei farmaci e a presentare la domanda per l’invalidità civile. Istanza che è stato possibile inoltrare solo grazie al suo ultimo contratto di lavoro regolare. Infatti, tutti gli anni precedentemente passati a lavorare in nero come lavoratrice domestica presso famiglie italiane non le avrebbero permesso di presentare la domanda per il riconoscimento della pensione.
“Ho lavorato per tanti anni in nero. Prima come badante, poi come lavapiatti. Sono nel 2010 ho avuto il mio primo vero contratto per lavorare col mio compagno in un maneggio vicino Napoli. Quest’ultimo patron mi ha messa in regola e versava i contributi. È bello lavorare con gli animali: ti guardano, non parlano. Eppure sanno essere più sinceri degli esseri umani. Ho lavorato lì fino a poco tempo fa, fino a quando il mio corpo non ha retto più”. Maria fa una pausa. Prende fiato. Poi prosegue nel ricordo dell’inizio della sua vita sospesa. “Faceva molto caldo. Stavo pulendo la stalla. Era da un po’ che avevo dolori. Quel giorno, all’improvviso, il dolore è diventato così forte che sono caduta in ginocchio. Sudavo freddo, mi mancava il fiato. Non riuscivo né a parlare né a respirare. Il mio compagno aveva paura, pensava stessi morendo. Sono stata così per più di un’ora. Piano piano mi sono ripresa. Successivamente, ogni volta che sentivo che il dolore stava per aumentare, prendevo antidolorifici e passava. Alla fine, dopo cinque anni, ho scoperto che ho il Parkinson, l’ipertensione e un fibroma all’utero”.

Il 53,59% dei cittadini comunitari irregolari visitati dichiara di non avere il codice ENI.

Maria arriva in Italia nel 2004, a 36 anni. In Romania aveva tutto: casa, famiglia, salute. Ma i soldi non bastavano. Così decide di raggiungere i nipoti in Italia a raccogliere fragole nelle serre di Villa Literno, in provincia di Caserta. “Quando sono entrata nella serra ho sentito un caldo indescrivibile: ci saranno stati 60 gradi. Dopo 10 minuti avevo il sangue che fuoriusciva dal naso come una fontana. Il patron mi ha detto: ‘Prendi i soldi e vattene subito, se resti qua tu muori’. Non volevo creare problemi. Quindi ho preso quanto mi spettava e me ne sono andata. Piangevo come una bambina. Mi vergognavo e mi sentivo incapace. Non potevo tornare a casa a mani vuote. In Romania avevo sempre fatto lavori pesanti e non mi era mai capitato di sentirmi male. Il giorno dopo ho asciugato le lacrime e sono venuta a Napoli. Mi sono rivolta a una moldava che trovava lavoro agli stranieri come me. Le ho dato 150 euro e mi ha trovato un posto come badante. È iniziata così, notte e giorno con una vecchiarella di 89 anni. Non si muoveva dal letto ma io la alzavo come fosse una piuma. I suoi familiari mi hanno accolta in casa come una di loro: mi davano 650 euro al mese, vitto, alloggio e ogni tanto mi compravano anche i vestiti. Si fidavano di me, ero una di famiglia. Ogni mese mi vedevano mandare tutti i 650 euro in Romania a mio marito per crescere i nostri figli. Un giorno ero in cucina con la mia vecchiarella. Avevamo appena finito di mangiare e io stavo lavando i piatti. All’improvviso ho sentito girare la testa. Buio. Mi sono risvegliata all’ospedale Cardarelli attaccata a una flebo. Ero svenuta. I dottori mi avevano trovato un nodulo nella testa e la pressione alta. Pochi giorni dopo ero di nuovo a lavoro. Con quei soldi ho mantenuto i miei cari. Fino a quando ho scoperto che mio marito li usava per se stesso e la sua nuova famiglia, messa su con un’altra donna. Quando la mia vecchiarella è morta sono andata in Romania, ho chiesto il divorzio e sono tornata in Italia. Ho ripreso subito a lavorare in nero con un’altra signora malata di Alzheimer: era tutto estremamente difficile. Ho continuato come badante in nero per anni. Giorno e notte, ho assistito anziani italiani: li alzavo dal letto, li lavavo, li sistemavo, cucinavo per loro. Facevo tutto io. Poi sono riuscita a trovare lavoro come lavapiatti e donna delle pulizie presso un ristorante italiano. Anche d’inverno le mie mani erano sempre immerse nell’acqua. È così che mi è venuta l’artrosi alle mani. Passavo molte ore in piedi. Troppe. La sera andavo a dormire con i dolori in tutto il corpo. Mi davano 550 euro al mese, più vitto e alloggio nella casa del patron. Ancora una volta, nessun contratto. I padroni erano bravi ed erano felici di me. Si fidavano. Ma io non riuscivo più a vivere in quelle condizioni. Sentivo che mi stavo ammalando”.

Maria lascia quel lavoro e inizia a vivere in affitto in una piccola baracca a Ponticelli. È immersa nella marginalità sociale e assiste, tenendosene sempre alla larga, a violenze, degrado, povertà, droga e prostituzione. Ma è proprio qui che incontra il suo nuovo compagno. “È una brava persona, ma quando è nervoso diventa l’inferno. All’inizio non mi ero accorta che beveva. Ora lo so. Ogni tanto mi fa male”.

La storia di Maria è solo una delle tante che animano le periferie di Napoli. Qui capita di ricevere anche molti pazienti italiani che insoddisfatti della visita dal proprio medico di famiglia cercano un secondo parere, ma per lo più arrivano cittadini comunitari che dopo anni di lavoro in nero hanno avuto la sfortuna di ammalarsi o di farsi male. E allora lì inizia il calvario che in molti casi rivela tutte le falle del sistema sanitario nazionale e locale.

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