Ho avuto la grande fortuna di essere stata un’alunna di Lidia Menapace.

Ricordo ancora con precisione l’esatto momento in cui l’ho vista la prima volta, e con me penso che altri miei coetanei (pochi, ormai) la ricorderanno. Era un autunno di fine anni ’50 del secolo scorso e in un’aula del liceo classico di Bolzano c’era il solito caos liberatorio dell’intervallo: libri e gessetti che volavano da un banco all’altro, scontrarsi confuso di teste gambe braccia nello spazio ristretto, vociare caotico in crescendo vorticoso e, ad un certo punto, in un improvviso quanto inspiegabile silenzio, una vocetta armoniosa dalla cattedra -che solo allora scoprivamo occupata dall’insegnante dell’ora successiva- “…Mi auguro non ci siano morti..!”. La subitanea disciplina che quella battuta aveva ottenuto era già frutto di un’autorevolezza che prima percepimmo per una sorta di istinto di branco, ma che imparammo poi a definire consapevolmente, a mano a mano che la sorridente ironia con cui ci guidava pian piano a comprendere noi stessi e il mondo attraverso l’insegnamento della letteratura italiana, entrava a far parte di un modo di interpretazione e di comunicazione che avrebbe improntato di sé la formazione di ciascuno di noi. Era la declinazione di una lettura razionale della realtà, che ci portò ben presto a fare i conti con certe prese di posizione che a noi, ragazzotti di provincia ingenui e rozzi, figli di una generazione che aveva speculato, grazie al fascismo, su un revanscismo pseudopatriottico, sembravano scontate e irrinunciabili. Andavamo a “manifestare” la nostra “italianità” sotto la sede del Dolomiten, il quotidiano locale di lingua tedesca e lei, pur senza sbatterci in faccia la nostra petulante ignoranza, ci costringeva a riflettere sulla ricchezza di una cultura interetnica, sulla necessità del dialogo e del rispetto delle posizioni altrui; e sempre con la forza di un’ironia intelligente e irresistibile, che a poco a poco sarebbe diventata il tono dominante anche del nostro linguaggio politico.

Avevo di lei una straordinaria soggezione, perché ne intuivo e ammiravo la particolare energia che le dava la stringente coerenza tra la scelta etica e l’attività politica nella vita culturale e amministrativa della nostra città, troppo provinciale per fare sconti a chi, specie se donna, aveva un coraggio così sicuro nelle proprie decisioni. Ho avuto modo di incontrarla anche in seguito, senza però che riuscissi veramente a superare la mia timidezza per provare con lei un rapporto diverso, anche se di volta in volta, nelle occasioni di carattere politico più generale o nei dibattiti all’interno delle comunità di base, ho avuto modo di apprendere sempre da lei, e sempre attraverso quella chiave di lettura del reale, apparentemente sorniona e “laterale”, ma di fatto potentemente persuasiva. Come quando, a proposito di temi scottanti come utero in affitto e maternità assistita, lei, cui pure era stata negata la fortuna di una maternità naturale e che pure era profondamente e polemicamente femminista, ironizzava su certe pretese di diritto alla maternità, spesso velleitarie e sconsiderate in relazione ai rischi connessi. O come quando, riferendo aneddoti autobiografici, sdrammatizzava il problema della scelta del fine vita, riportandolo ai termini più sereni e accettabili di una prassi di assistenza che abbrevia le sofferenze di un’agonia insopportabile.

Che a lei, dopo un’esistenza così ricca e feconda, spero tanto sia stata risparmiata…

Rosaria De Felice

Roma, 8 dicembre 2020