L’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne (OIVD) ha organizzato una serie di incontri dal titolo “Eretiche” nel quale mette a confronto donne di associazioni che rappresentano vari profili del femminismo italiano. Si tratta del secondo ciclo di incontri dopo quello del 2022 che ha messo a confronto donne esponenti di diverse religioni.

Il primo incontro del secondo ciclo si è svolto il 29 marzo on line e ha visto la partecipazione di Lea Melandri e Liliana Moro che hanno parlato della Libera Università delle Donne di Milano (L.U.D.). Qui il link alla registrazione su YouTube.

Il prossimo appuntamento è per il 9 maggio. L’OIVD incontrerà la Libreria delle Donne di Milano e la Comunità di Storia Vivente.

Paola Cavallari, oltre a essere teologa e autrice di numerosi libri, è promotrice e presidente dell’OIVD. L’ho intervistata chiedendole di raccontare l’esperienza dell’Osservatorio e anche di rispondere ad alcune domande suscitate in me dal primo incontro del secondo ciclo di “Eretiche”.

Innanzitutto, che cosa è l’OIVD, e qual è la storia di questa esperienza?

L’Osservatorio Interreligioso sulle Violenze contro le Donne (O.I.V.D.) è un’ organizzazione volontaria, spontanea, di base, autonoma e indipendente da istituzioni religiose e laiche.

L’ Osservatorio è nato nel solco dell’“Appello ecumenico alle chiese cristiane contro la violenza sulle donne” (9 marzo 2015). Sulla scia di tale evento promossi le Tavole rotonde interreligiose dal titolo “Religioni e Violenza contro le donne”, un ciclo di appuntamenti a scadenza annuale. Nella seconda di queste giornate (maggio 2017), germogliò la volontà di dar vita a un Osservatorio. Un manipolo di donne di varie religioni e di varie regioni italiane, da me chiamate a raccolta, elaborava un Protocollo d’intesa: con esso ci si impegnava ad attuare una vigilanza sull’Appello e più in generale si lanciava il progetto per una “presa di parola”, da parte di donne credenti, che risvegliasse l’esigenza di una civiltà e di una cultura- sia in ambito religioso, sia in prospettiva laica – improntate alla giustizia fra sessi/generi e alla pari dignità di donne e uomini in ogni ambito del vivere sociale. Il progetto non era confinato alla prospettiva religiosa e alla ricerca spirituale, ma queste erano centrali. Esistevano infatti in Italia parecchie associazioni impegnate nella denuncia della violenza di genere; noi volevamo aggiungere a questo arcipelago, con cui interagiamo, un organismo sui generis.

Era la voce chiara e forte di donne credenti che:

  • riaffermavano la loro scelta di fede come Ruah, spirito fecondante, crescita e dilatazione della propria soggettività; ribadivano il messaggio di giustizia e dignità per donne e uomini che le Scritture avevano originariamente annunciato;
  • denunciavano il sequestro poi avvenuto, esercitato dalla casta maschile dei funzionari del sacro, autoelettesi auctoritas esclusiva;
  • condividevano – ognuna con la propria sensibilità- le istanze del femminismo (vero artefice di processi trasformativi profondi, “di decolonizzazione delle nostre menti e tutto il nostro essere” (espressione di bell hooks);
  • asserivano l’ influenza misogina strisciante che le istituzioni religiose determinavano nella politica e nella società ( anche in una cultura che si dichiarava laica);
  • si impegnavano per lo smascheramento delle istanze sessiste intrinseche a tali tradizioni;
  • promuovevano un’economia simbolica dove le voci di donne, di bambini, di qualsiasi vivente non fossero più sottostimate, rese irrilevanti o, peggio ancora, fossero confinate in una indistinta afasia.

Ciò comportava, in primis, un esercizio di disidentificazione dai modelli tradizionali vigenti trasmessi dalle comunità religiose (chi più, chi meno). Richiedeva inoltre l’orgoglio e la fierezza di quella parresia che dà voce all’intelligenza del cuore, a quella sete di giustizia che maestre – come Simone Weil – ci hanno suggerito di mai tacitare, resistendo alle insidie, alle disconferme alle colpevolizzazioni e manipolazioni tentacolari a cui tali istituzioni ricorrono (sempre lo hanno fatto nella storia). L’androcentrismo e la misoginia coappartengono al veleno del clericalismo, per noi ne sono la radice: andavano perciò nominati con l’intelligenza di un femminismo maturo e critico; essi non solo alimentano un immaginario che deprezza e svilisce l’integrità femminile, ma solidificano quelle strutture di peccato che, appellandosi alle idolatrie della Tradizione (che in realtà è tradizionalismo) o della “Legge di natura” (che di naturale non ha nulla), rendono invisibile – per quanto all’opera – la colonizzazione esercitata dagli uomini.

L’ Associazione è stata dunque fondata da donne di religioni differenti, a cui in seguito si sono aggregate/i anche donne e uomini che nutrono orizzonti e valori laici.

Il nome della associazione non è casuale.

Osservatorio: significa legittimare lo sguardo femminile sul mondo, ribaltando così una tradizione culturale che vedeva le donne oggetto di sguardo da parte degli uomini o le induceva a valutare se stesse secondo paradigmi e visioni virili. All’origine il termine scaturì dalla determinazione a costituirsi “osservatorio” dello sviluppo e delle sorti dell’ Appello (vedi sopra). In effetti quel documento fu misconosciuto dalla maggioranza delle comunità, e lo sarebbe stato ancor di più se l’OIVD non avesse esercitato comunque un’eco all’evento.

Interreligioso: significa tenere la barra dritta sulla trasversalità della colonizzazione femminile per mano del kyriarcato maschile, trasversalità che percorre tutte le culture religiose (chi più chi meno). Data questa premessa, la strada obbligata è la pratica di un franco dialogo interreligioso per affinare i saperi, rispondere alle sfide, incrementare la consapevolezza di una diseguaglianza che è alla radice di ogni diseguaglianza e diffonderla presso altre donne e uomini.

Violenze: la parola è al plurale e non a caso. Le violenze visibili e oggettivabili sono solo la punta dell’iceberg che potrebbe rappresentare – idealmente – l’universo delle violenze, che si dislocano su vari assi: da quelle materiali a quelle immateriali, le quali si diramano poi in vari ambiti; e spesso sono troppo pervasive e non hanno nome. Nominare le violenze è già un atto che denota la consapevolezza del torto/vessazione subita.

Abbiamo coscienza di quanto questo campo di ricerca-azione sia profondamente aggrovigliato e complesso: ciò ci sprona ancor di più a impegnarci per farne emergere i lineamenti, i profili; e a contrastare una cultura dell’intolleranza) (spesso una cultura dello stupro) che vede al primo posto e da anni, come vittime, le donne (vedi la Mappa voluta da VOX – Osservatorio Italiano sui Diritti).

Donne: sul termine ci siamo già dilungate. Precisiamo ulteriormente che al nostro interno due convincimenti si affiancano: il primo crede che le violenze sulle donne siano la radice prima di ogni altra sopraffazione e che il femminismo sia da sempre un movimento contro tutti gli autoritarismi, prevaricazioni, schiavitù; il secondo sostiene che l’oppressione si declina in varie forme, tra cui il razzismo, il sessismo, il classismo e la normatività eterosessuale: è il cuore del femminismo intersezionale.

L’OIVD è un cantiere aperto. Ci siamo date una veste formale definita (statuto), ma tale impalcatura con i suoi organismi statutari (il consiglio direttivo e l’assemblea) non sono gabbie che irrigidiscono le nostre pratiche. Siamo assai flessibili nell’organizzazione e nella gestione delle attività: i laboratori sono il cuore pulsante della associazione. Il laboratorio è costituito da un gruppo di socie/i, disseminati lungo il territorio nazionale, che interagiscono attraverso la piattaforma Zoom, si confrontano su progetti e danno forma ad eventi e azioni di natura culturale: lo scopo è quello di sensibilizzare, informare, coinvolgere sui temi inerenti al nostro progetto complessivo. Stesse azioni compiono i gruppi locali, che si radicano su un territorio specifico.

E per concludere: l’OIVD è una ellisse con due centri: il femminismo e l’interreligioso; questa duplicità di irradiazione non ammette una gerarchia, dando a uno dei due centri il primato. D’altra parte, proseguendo sulla categoria del “due”, siamo tra due fuochi; dalle femministe sospettati/e perché abitiamo il campo del religioso, dai/dalle credenti sospettati/e perché ci situiamo nel campo del femminismo; dunque ci posizioniamo in quel margine che è l’impensato dell’Osservatorio.

Nella presentazione di questo ciclo di “Eretiche” avete scritto che la condivisione delle pratiche e delle sapienze femministe è un punto di forza per tutte. Vi riferite solo alla condivisione tra donne credenti e donne non credenti? Non pensi che sia importante anche far dialogare, seppure a distanza, esperienze decennali che hanno fatto la storia del femminismo in Italia rimanendo però, di fatto, separate o “incomunicanti”?

Assolutamente sì! Tu nomini un obiettivo veramente essenziale: “far dialogare, seppure a distanza, esperienze decennali che hanno fatto la storia del femminismo in Italia rimanendo però, di fatto, separate o “incomunicanti”?”; come tu sai è una meta difficile, ma sarebbe necessario che si arrivasse a comprendere che “sarebbe un punto di forza per tutte”. Nell’incontro del 29 marzo on line, con Lea Melandri e Liliana Moro si è ripercorsa la differenza sostanziale che – dopo la fioritura degli anni ’70 – è emersa tra un femminismo delle “pratiche”, un femminismo-movimento e un femminismo accademico, ovvero basato sostanzialmente su produzione teorica, senza contaminazioni con l’agire. Il primo si incentra sulla investigazione appassionata e complessa di un linguaggio del corpo, finora tacitato, e di un partire da sé, finora svilito, sulla consapevolezza che le pratiche politiche sono indispensabili per l’essenza stessa del sapere teorico; l’altro si accredita il consenso sulla scena dei saperi “alti” attraverso gli studi di genere, sulla separatezza tra l’agire e l’elaborare teorico. Questo mondo di fatto ha scippato i saperi di cui altre donne hanno fatto esperienza, come fa il mondo maschile. Quanto carrierismo – tranne rari casi – si annida poi in quegli ambienti! Le giovani spesso vedono questo modello e lo scambiano per femminismo tout-cout. bell hooks ne tratta a più riprese nei suoi scritti, con arguzia e invettiva.

Ci sono poi le “incomunicabilità” tra chi ha fatto la storia del femminismo in Italia, e tutte noi che da tempo abitiamo in queste dimore, sappiamo bene a chi mi riferisco. Ma questo argomento, assai complicato, ci porterebbe via molto tempo. Una piccola notazione però la esprimo. Per anni è stata egemone in Italia una teoria politica per cui “La potenza materna si era di nuovo ingoiata la sessualità femminile” (Angela Putino). (ndr: la filosofa scomparsa nel 2007).

Ora vedo un fossato abbastanza profondo con le donne che si dichiarano transfemminste e le altre. Mi pare che da parte di alcune di loro ci sia una buona dose di intolleranza, che certo ostacola il dialogo. Continuo a credere che non si sia compreso che il femminismo, quello delle pratiche, quello di chi lo viveva autenticamente, con audacia e con sofferenza (vedi il diario di Carla Lonzi) è da sempre stato schierato contro il razzismo, contro le oppressioni di classe, contro l’omofobia. E sempre ha saputo che il movimento delle donne li comprendeva come proprie istanze. Per cui credo che la contrapposizione stia in altre ragioni.

Ma aggiungo anche che le radicalità sono anche esse un punto di forza (e cito di nuovo Carla Lonzi), e chi le assume con convincimento non può sbiadirle, annacquarle: certi principi non sono negoziabili. Per noi dell’OIVD, non è negoziabile la schiavitù del sistema prostitutivo, ad esempio. E quindi la questione, anche questa, si fa complessa.

Infine, negli ultimi mesi c’è un grande attivismo delle donne delle religioni istituzionali che, mi sembra, siano ora intenzionate a far valere il loro protagonismo molto più che in passato. In ambito cattolico, ad esempio, è stato presentato a Napoli, recentemente, il sito internet “rosa” della diocesi, diretto dalla teologa Adriana Valerio, un sito che si occuperà non solo di teoria ma anche di iniziative culturali, di libri, di itinerari turistico-religiosi. Se è vero che per secoli le donne hanno parlato “fuori dalla violenza ermeneutica del pensiero”, non pensi che definire “eretiche” le voci delle donne credenti di oggi ne offuschi la presenza e il protagonismo?

No, non lo credo. Anzi, lo enfatizza, perché è una “presa di parola” e un rivendicare con orgoglio una genealogia femminile asservita, svilita, ingiuriata. La parola eretiche da noi è stata assunta capovolgendola, eletta come attributo “glorioso”, e dalle nostre ospiti è stato interpretato ugualmente come segno di valore. Lo si è potuto constatare per tutto il primo ciclo e anche nell’appuntamento con Lea Melandri e le donne della LUD. Se ben ricordi ci siamo autoappellate Streghe dagli anni ’70 (Tremate tremate le streghe son tornate). Una foto graziosa di questi ultimi tempi raffigura una bambina ad una manifestazione con un cartello “Siamo le pronipoti di quelle che non siete riusciti a bruciare”. E ancora mi sovviene che la grande Mary Daly nel suo ultimo “Quintessenza”, con il suo linguaggio vulcanico e la sua inventività lessicale, si rivolge alle donne postpatriarcali con appellativi quali: Megere, Furiose, Terribili, Donne Drago…. L’economia androcentrica ha ribaltato la cultura sottraendo alle donne le loro energie, ora occorre ribaltare ciò che era stato ribaltato e chiamarci eretiche è un dare riconoscimento alla coraggiosa inaddomesticabilità delle donne, alla tenace devianza e ribellione. L’opera della edificazione della nostra genealogia è appena all’inizio; va costruita anche in questi dettagli, perché l’uso del linguaggio è da intendersi come presa di parola, come atto sovversivo in sé.

Il libro Eretiche di Adriana Valerio, portava come sottotitolo donne che riflettono, osano, resistono , allora cogliamo la loro testimonianza: riflettiamo, osiamo, resistiamo!