Il libro è di Jennifer Worth, ambientato nel dopoguerra in Inghilterra. La traduzione filmica ({L’amore e la vita. Call The Midwife}) è della Neal Street Productions e in Italia la serie appena iniziata si può vedere su Rete 4. { {{In voice over }} } si snoda la prima puntata che racconta la vita di una giovane in servizio presso un istituto di suore anglicane levatrici e dedite all’aiuto di donne di un quartiere povero di Londra.
La parola{ levatrice} al posto di ostetrica mi ha rimandato a qualcosa di familiare, perché così si chiamavano, perlomeno fino agli anni cinquanta del secolo scorso in Italia. E anche perché mia nonna fece la levatrice fino a quando venne contaminata (in servizio?) del terribile virus della “spagnola” e morì in piena prima guerra mondiale. Sicuramente non aveva frequentato la scuola, che nella più moderna Inghilterra risale ai primi del secolo scorso.

Le levatrici delle zone rurali dell’ex Stato pontificio (mia nonna operò nel faentino), esercitavano anche funzione di cura con le loro medicine officinali. In Romagna vinse, prima donna, il concorso a medico condotto{{ Isotta Gervasi}} (Cervia 1887, Modena 1967). Una socialista piena di fervore come le ragazze inglesi del filmato, che rinunciò alla carriera di ricercatrice all’Università di Bologna perché riteneva la professione medica una missione.

Mi ha sorpreso però che nel filmato le giovani dell’istituto religioso fossero chiamate infermiere e non levatrici. Credo che l’autrice del libro abbia voluto descrivere il coraggio e l’entusiasmo delle donne per i riti della nascita e della cura dei corpi. Entusiasmo eguale sia da parte delle suore, che da parte delle mamme e delle giovani levatrici.
Mi chiedo se questa traccia nelle prossime puntate, non risulti alla fin fine un’esaltazione manipolativa del ruolo presunto naturale delle donne per il lavoro di cura e, in specifico, per la maternità.
Ovvero, la maternità come destino naturale e identificatorio, in assoluto, per il genere femminile. Le donne-madri della prima puntata segnate da una ventina di gravidanze, o dall’impossibilità di portare a termine una gestazione, o ingravidate adolescenti ma innamorate dell’idea, risarcitoria di una vita sbagliata, sono quadretti ben noti di un’antica retorica che in Italia ha raggiunto vertici insopportabili.

Non potrebbe essere italiano l’ordine delle suore, in altre parole non potrebbe essere cattolico proprio perché dedicato a far nascere bambini. Le suore del filmato sono descritte come molto spigliate e per nulla intrappolate in una morale sessuofobica.
La Chiesa Cattolica con l’esaltazione quasi ossessiva della figura della Madonna Vergine e Madre ha reso impossibile un’istituzione come quella delle anglicane inglesi.

Prima del Concilio Vaticano II lo stile delle suore cattoliche era improntato a un severo, arcigno, comportamento verginale; i contatti dei corpi erano sempre oggetti di qualche riprovazione. Nel film però traspare un senso di superiorità anglicana e civile in parte giustificato. C’è un’implicita critica alle istituzioni cattoliche perché alla ragazza un po’ svitata ospitata presso un istituto, è sottratta la neonata per un’adozione.
Ormai vari film e libri hanno documentato soprattutto la terribile realtà delle ragazze madri irlandesi nelle istituzioni religiose tenute dalle suore cattoliche. Risalta il compiacimento per i risultati del servizio sanitario nazionale (1948) che comincia a ridurre le morti dei neonati. Noi, al servizio nazionale sanitario gratuito, ci siamo arrivati molto dopo.