Antonio D’Andrea intitola a un proverbio molisano la sua ricerca su Lucia di Milione (Mariangela Lucia Di Rienzi), una delle ultime raccoglitrici del Novecento molisano, ricostruita attraverso contributi di persone a lei legate da parentela o amicizia, che l’hanno conosciuta e/o ne possono raccontare.

L’Autore ha trascorso a Capracotta estati felici, dai cinque ai dieci anni, con la sorella maggiore, Maria Bambina e alle cugine Rosaria e Michelina, presso la zia materna, Elena “una versione montanara di Mary Poppins”, i genitori al lavoro, a Milano.

Quel mondo agro-pastorale, retto da due tradizionali economie – la pastorizia transumante verso il Tavoliere delle Puglie e l’industria boschiva per far carbone – cui si è aggiunto, nel tempo, un turismo attento alle bellezze naturali e alle piste da sci (alpine e di fondo), ha mantenuto in lui una fascinazione che l’ha portato a trasferirvisi (2013) e a coltivarvi interessi storici ed eco-ambientalisti, con alle spalle una lunga militanza nel Movimento degli Uomini Casalinghi (lanciato nel 1985).

Nelle pagine, la ricostruzione della famiglia di Lucia. La madre, Mariarosa (Marosa) Ianiro, era una donna “tuttofare”, gentile e generosa che offriva sempre una patata bollita (alimento base), ai bambini che passavano nei pressi della sua casa, o un pezzo di pane o di pannocchia. Il padre, Emilione Di Rienzi, era cardatore di lana di pecora e pastore. Abitavano nella Terra Vecchia (quartiere medievale di Capracotta, diviso in sette rùfe, di cui ne sopravvivono quattro), in una casa “estremamente misera e piuttosto angusta”: una stalla-cantina per la legna e la capra, un ingresso che fungeva da camera da letto e dal quale, per una scala di legno, si saliva alla cucina, con grande camino e una finestrella. Mancavano i servizi. Durante l’inverno i tubi si gelavano e Lucia, tre volte la settimana, andava a prendere l’acqua in un tino, a casa di una zia dell’Autore, Concettina d’Andrea, una delle fonti sull’infanzia di Lucia, presto legata indissolubilmente alle nevi del Monte Capraio, ai tratturi, alle greggi e ai boschi di cui conosceva i segreti delle erbe, dei funghi e dei fiori.

La straordinaria interazione di una ragazza, poi adulta “burbera, poco socievole, salvàggia”, con la comunità capracottese, specie con la parte femminile e più esposta di essa, fu talmente forte da introdurre una modifica nel lessico: “Esse mò vè Lucia!” è frase di spauracchio per bambin*, che appartiene all’alterità dell’esperienza storica di Lucia ma è anche il riconoscimento della “forza indomita” dimostrata in un’esistenza solitaria ma non isolata; piena di lutti ma dispensatrice di cure e consolazioni, di opposizione alle violenze e ai soprusi che neppure lì mancavano (Lucia contro le molestie e violenze sessuali; Lucia sgomina le baby-gang; La rivolta di una donna anonima; Donne, pastori e boscaioli).

Il monte, la piana, le stagioni, la libertà, il quotidiano nella Terra Vecchia, la guerra e il dopoguerra.

Ogni sera, Lucia rientrava nella casa annerita dal fumo del camino, dove viveva con la sorella Irene (dalla vita drammatica e che contribuiva alla vita comune con la pensione vedovile e lavoretti d’ago), nella rùfa de Meglione da cui probabilmente traeva il soprannome (di Milione), ma l’Autore esplora anche altre derivazioni.

Nelle fotografie, è subito riconoscibile, alta, quasi statuaria con qualcosa d’immutevole; contemporaneamente antica e moderna; “maestra di vita e insegnante d’erbe”, che una “bellissima lastra del cav. Giovanni Paglione” raffigura, in montagna, “attorniata dal folto gruppo delle sue giovani allieve raccoglitrici”. Sono le allieve della Scuola di raccoglitrici itineranti, una delle iniziative dell’associazione Vivere con Cura a Capracotta, presieduta da Antonio Di Andrea, che gestisce la Casa delle Erbe “Lucia e Irene di Milione” e propone “eco-percorsi culturali alternativi alle istituzioni scolastiche”, momenti conviviali e di approfondimento come il Festival delle Erbe e altro.

 “Lo stile di vita di Lucia, il suo modo di essere donna, il saper abitare un territorio senza distruggerlo o inquinarlo ma tenendosi in contatto con tutti gli abitanti, va considerato un valore alto e al contempo profondo, un insegnamento per ripensare la nostra vita in una società in bancarotta” scrive Di Andrea che augura “buon viaggio” a chi, seguendo il suo “ruminare”, scopre quella “strana creatura: gli occhi spiritati, il capo scosso da un tremito su un corpo nodoso e robusto, la voce alterata che sembrava uscire più dalle vesti grigie e logore che dalla bocca, i capelli scarmigliati. Veniva dal paese diretta al bosco e di ritorno da questo, passava cantando, recitando, fermandosi ogni tanto a rispondere alle donne, blaterando chissà cosa ai ragazzini incuriositi e spaventati insieme. Saliva la strada lentamente e spariva inghiottita dalle rocce come fosse parte di loro dietro la curva del pilone (…) Lei aveva il fascino delle fiabe, di chi conosce la natura con la quale sa dialogare meglio che con le persone (…) Tra le case stonava: in occasione di una festa religiosa, durante i canti e i fuochi di artificio le sue note accresciute e scomposte portavano la folla al riso e alla pena ma lei continuava in un’enfasi sproporzionata di risposta a chi voleva ridurla al silenzio.” (Flora Di Rienzo, p. 232)

Integrava gli scarsi proventi curando “un suo piccolo campo dove coltivava, con tanta fatica, lenticchie e patate” (Nunzia Flesca, p. 41) e che difendeva da qualsiasi incursione.

La biografia evidenzia l’unicità di Lucia di Milione, in qualche caso interpretata come emarginazione e disadattamento ma difesa dall’Autore nella sua piena consapevolezza, “persona capace di guardare oltre ai propri interessi, senza preconcetti verso la scienza medica e farmacologica” come esemplifica l’amicizia tra l’esperta fitoterapista e il farmacista locale; anzi, Lucia di Milione capeggiò il corteo, partecipato da donne e studenti di sinistra che chiese e ottenne l’apertura della Farmacia, a Capracotta, per risolvere le problematiche dei lunghissimi e innevati inverni dell’Alto Molise (1975).   

Si legge: “Donna cattolica, di estrazione pastorale-contadina, legata a riti arcaici e a una visione della vita non progressista e tanto meno rivoluzionaria, dimostra una mentalità sorprendentemente aperta, s’intende con i giovani anni ’70 (…) secondo me lei, che ormai è vecchia e ha praticamente smesso di andare in giro a raccogliere erbe, ha raggiunto quella sensibilità che la porta a lottare per gli altri, per il futuro di Capracotta”. Lucia di Milione come una delle tante Lucie di Fontamara, di Ignazio Silone, romanzo ambientato sulle montagne abruzzesi e che riporta il protagonismo femminile delle lotte contadine per i beni comuni essenziali, come l’acqua.  Anch’essi elementi di grande attualità.

Una figura dunque, che “assolve funzione educativa, spirituale e di liberazione femminile”.

Intrecciata alla storia di Lucia, è proposta quella di Capracotta, antichissimo paese dalla dubbia toponomastica, con la curiosità araldica della capra che salta fuori da un rogo nello stemma civico.

Per Ugo Mosca, il toponimo deriva dai termini italici kapp (luogo alto) e kott (luogo roccioso); per Luigi Campanelli, dalle tre capre sacrificate in onore di Gaio Aurelio Cotta, secondo Console nel 200 a. C., quando i Romani requisirono e si divisero le terre dei Sanniti (capre di Cotta); può derivare anche da un accampamento romano protetto da un muro in mattoni (castra cocta), o di un rito apotropaico longobardo che prevedeva di sacrificare, cuocere e mangiare una capra al momento di stabilirsi in una zona (esistono altre Capracotta nel centro-nord d’Italia, d’antica appartenenza longobarda); un rito similare informa la tarda leggenda che vuole il paese fondato dai Rom (giunti in Italia nel XV° sec.), nel punto in cui raggiunsero, esanime, la capra fuggita al coltello e al fuoco.

Un libro che si raccomanda

(a cura di Antonio Di Andrea, La pecora che miagola perde il boccone. L’immensa eredità di Lucia di Milione: Strega, Amazzone e Sacerdotessa di Capracotta, Youcanprint, 2019; in copertina opera-ritratto di Donatella Di Lallo)