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Due protagonisti. Due conflitti differenti. Due storie si intrecciano, narrano di due guerre dei primi anni Novanta da due diversi punti di vista: quello di Bakira, una donna bosniaca sopravvissuta alle violenze della guerra nella ex-Jugoslavia e quello di Michele, un ex soldato italiano di una missione internazionale di pace in Somalia, il cui contingente è stato responsabile di violenze contro la popolazione civile. Il film è la narrazione di un inesausto viaggio in fieri verso la consapevolezza del male e dell’umana capacità di generarlo

La prima proiezione romana  del film documentario La linea sottile sarà possibile vederla al Cinema Farnese -Piazza Campo dei Fiori venerdì 18 marzo alle ore 20,30. Intervengono la regista Paola Sangiovanni e Riccardo Naury di Amnesty International. mo
La proiezione successiva sarà il 24 marzo, ore 21, all’Apollo11, con letture a cura di Sonia Bergamasco e una conversazione tra Paola Sangiovanni e Daniele Vicari.

Recensione di Giulia Marras da diaridicineclub@gmail.com 21  – Documentari

La linea sottile, il documentario su una bosniaca sopravvissuta agli stupri
Il racconto di un crimine di guerra, con due vite parallele: una bosniaca sopravvissuta agli stupri in Jugoslavia e un militare italiano testimone degli stupri in Somalia. Firmato da Paola Sangiovanni e Nina Mimica. Uscirà nelle sale l’8 marzo per la Doclab
Presentato a Dicembre in anteprima italiana al Festival Internazio¬nale del Documentario Visioni dal Mondo fuo¬ri concorso e in uscita a marzo nelle fortuna¬te sale del paese, il do¬cumentario di Paola Sangiovanni e Nina Mimica si presenta sfac¬ciatamente dal buio degli anni Novanta con l’intento ben preciso di raccontare gli orrori nascosti di una, due e di tutte le guerre; quelli ancora tabù, taciuti e impuniti. Prendendo lo stupro quale atto incriminato e simbolo della violenza fisica, psicologica nonché territoriale e razziale che perpetua la guerra, le due regi¬ste ritornano su due diversi fronti: quello del¬la missione italiana “umanitaria” in Somalia del 1992 da una parte e quello della guerra in ex-Jugoslavia protrattasi fino al 1995. Lungi dal divenire prospettiva unilaterale e sorda ri¬vendicazione, si sono rivolte anche a due ver¬santi opposti, sia geografici che umani: in Ita¬lia lo sguardo è destinato a Michele, ex soldato dell’operazione ONU in Somalia, carnefice al¬lora inconsapevole e oggi pentito nel suo esse¬re coinvolto appena diciannovenne dalla “leg¬ge del branco” militare; in Bosnia ed Erzegovina a governare lo sguardo è Bakira, vittima degli stupri degli aggressori serbi è una delle prime donne bosniache ad aver testimoniato davan¬ti all’International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ITCY) nonché fondatrice e presidente dell’Associazione donne vittime di guerra. Nonostante lo stupro sia stato dichia¬rato ufficialmente crimine di guerra dalla convenzione di Ginevra del 1949, la sua de¬nuncia rimane infatti ancora un tabù soprat¬tutto in clima bellico. Utilizzato anche come strumento di pulizia etnica, tale abuso venne giuridicamente esposto per la prima volta proprio dal Tribunale Penale per l’ex-Jugoslavia nel giudizio di uomini serbo-bosniaci che violen¬tarono donne e ragazze musulmane nel genoci¬dio di Foča e Visegrad, tra cui la stessa Bakira. Sangiovanni e Mimica scrivono per immagini d’archivio e di vita quotidiana un diario a due voci, senza temere di inquadrare i protagoni¬sti nel tormento dei ricordi pruriginosi di vio¬lenze e di torture. I punti di vista lontani e contrapposti, maschile e femminile, inaspet¬tatamente si incrociano e per alcuni attimi coincidono, come nella perdita del sonno nel¬la notte incubatrice di echi dal passato o nell’incomprensione con i propri interlocuto¬ri sugli scempi subiti o compiuti. Se quella di Bakira, oltre che essere una sopravvivenza con il trauma e il dolore, è una battaglia anche e soprattutto con la giustizia (a volte ottusa, a volte troppo lenta) contro il silenzio, quella di Michele è ancora più sotterranea, se possibile, reduce senza appigli dall’incoscienza giovani¬le e dalla devianza del forzato cameratismo militare. Le foto “ricordo” – come venivano chiamate dai soldati – dei somali torturati e dei loro cadaveri diventano allora tragici me¬morandum di atti freudianamente rimossi, barbariche prove di coraggio per non diventa¬re i “cani morti” del gruppo. Essenziale e note¬vole in La linea sottile è il lavoro di recupero e assemblaggio di scatti e filmati d’archivio, ri¬salenti all’epoca e ai territori dove si concentrano le parole: a partire dall’Istituto Luce ai video amatoriali dei soldati fino ai preziosi e bru¬cianti girati di Miran Hrovatin, cameraman ucciso assieme alla giornalista Ilaria Alpi nel 1994, le immagini del reale appaiono quasi co¬me emanazioni audiovisive dirette delle testi¬monianze e dei pensieri dei protagonisti. Con uno stile talvolta disorganico ma profonda¬mente personale e sentito nel ripercorrere la Storia più recente, mai abbastanza rielabora¬ta, attraverso delle vere e proprie storie sul campo, La linea sottile è un cinema di ricerca che non smette di indagare e scavare al termi¬ne della durata del film. La necessità di uno sguardo finalmente femminile sulla guerra si impone, senza preclusioni né invasioni, e si proclama vivo: quello di Paola Sangiovanni e Nina Mimica è un gesto di resistenza per la memoria e per il risveglio, non solo delle don¬ne, ma un richiamo collettivo a chiamare (e punire) i crimini con il loro nome, per quanto vergognosi o offensivi. Un gesto che si ricolle¬ga e combacia con quello di Bakira, quando, disconosciuto il genocidio per il suo paese, con impeto (e solitudine) riscrive da sé la pa¬rola cancellata dal memoriale, con un sempli¬ce rossetto.

 Recensione di Valentina Ravizza
C’è Bakira Hasečić, sopravvissuta bosniaca alle violenze del conflitto in ex-Jugoslavia, e c’è Michele Patruno, ex soldato italiano inviato in Somalia all’interno di una delegazione internazionale. Una vittima e un carnefice, una guerra e una missione di pace, due continenti diversi ma le stesse atrocità.

Più che un documentario La linea sottile è un viaggio nel cuore di tenebra, che, anche grazie a immagini inedite o rare (come quelle girate da Miran Hrovatin, il cameraman ucciso insieme alla giornalista Ilaria Alpi), ripercorre gli orrori compiuti e subiti. «Per me il cinema è una spinta a leggere la realtà, è un lavoro di comprensione culturale» ha spiegato la regista Paola Sangiovanni, che con la collega croata Nina Mimica ha realizzato il film (che verrà presentato al festival Visioni dal mondo di Milano il prossimo 13 dicembre e uscirà nelle sale in primavera). «È stato un lavoro per il quale abbiamo sofferto molto, tuttavia credo sia giusto portare alla luce quanto la guerra sia non solo sporca ma anche ipocrita. L’unica speranza di fronte a questa disumanità, a questa efferatezza è non tacere. A differenza di Michele, l’ex militare che oggi lavora in una fabbrica di armi: quando suo figlio gli chiede “Cos’è questa guerra?” non trova le parole per rispondergli».

 Ciononostante trova la forza di “confessare” di fronte alla telecamera molti crimini di cui si è macchiato in Somalia, come l’avete convinto a farlo?

Mi sembrava importante avere una testimonianza maschile che riportasse un altro punto di vista rispetto a quello della vittima e che legasse le violenze condotte in Paesi spesso distanti alla nostra società occidentale. Quello della Somalia è il primo caso in cui si è parlato di “guerra umanitaria”, eppure già nel 1997 iniziarono a uscire notizie che legavano le azioni dei nostri soldati a casi di tortura. Per Michele è stata la prima volta in cui ha parlato apertamente di cosa era successo: ha accettato subito, però poi quando abbiamo iniziato a fargli delle domande più personali ha avuto qualche difficoltà.

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Bakira scrive GENOCIDIO su una tomba

Ma alla fine vi ha raccontato atrocità spaventose…
Non ce le ha solo raccontate, lui e i suoi compagni fotografavano e filmavano tante loro azioni: ragazzi incappucciati e legati torturati con elettrodi, tartarughe giganti calpestate con i mezzi blindati per vedere quanto avrebbero resistito… Per loro, lo dice Michele stesso, erano “foto ricordo”, non dissimili da quelle di un tramonto o di bambini sorridenti. Si aderiva alle idee e alle decisioni del branco, non c’era distinzione tra bene e male, nessuna consapevolezza che si stessero compiendo dei crimini. Come se “l’altro”, “il negro” come lo chiamano questi soldati, non fosse umano, appartenesse a una categoria diversa da noi, a cui si può fare qualsiasi cosa.

Quando è arrivata la consapevolezza?
È un percorso lungo, lento. Passi avanti sono stati fatti proprio girando il film. Ci sono ex militari che ancora oggi soffrono d’insonnia: inconsciamente sanno di aver sbagliato, non riescono ad accettare quello che hanno fatto, perciò l’“incubo” irrisolto si sposta in un’altra sfera, torna a tormentarli durante la notte. Michele invece si è dimostrato fortemente autocritico verso quei meccanismi di potere che rendono l’altro una vittima inerme. Non sono ricordi passati, sono ancora vivi, li hanno segnati profondamente.

Avete scelto di rivivere due vicende avvenute oltre 20 anni fa, ciononostante le testimonianze di Michele e Bakira ci riportano agli orrori compiuti oggi dall’Isis. Non c’è nessuna speranza che il mondo esca da questa spirale di violenza
È difficile da accettare questa relazione tra l’efferatezza dei jihadisti, che sappiamo paragonare forse solo al nazismo, e le atrocità commesse dai nostri stessi soldati, cresciuti nella cultura occidentale, con il nostro sistema di valori. Ci lascia sconcertati. Proprio per questo è ancora più importante parlarne, raccontare. Interrogare l’altro per cercare di capire. Anche se fa male.

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