copertinaIl libro firmato da Serenella Antoniazzi con Elisa Cozzarini (giornalista d’inchiesta in Friuli Venezia Giulia dove ha vinto il Premio Cigana (2014), è la veridica testimonianza di un’imprenditrice anche se per la privacy sono stati cambiati alcuni nomi di persone e aziende.

Serenella è “figlia d’arte”, cresciuta tra le mura del capannone della ditta di famiglia, l’AGA, fondata nel 1972 a Concordia Saggittaria (Venezia) da due fratelli, Arnaldo e Giuseppe Antoniazzi. Nell’AGA entra a lavorare a 16 anni “archiviando ogni altra aspirazione personale” e ne diventerà la co-proprietaria. Una ditta sana, che leviga il legno, ma con quasi 50 milioni di cambiali perché una grossa commessa di lavoro, già consegnato (2011), non è stata pagata.

Il 2012 porta “insoluti, posticipi, acrobazie bancarie, ricerca d’aiuto finanziario, richiesta d’appoggio di qualcuno, di enti, di istituzioni”. Lei continua a pensare di potercela fare da sola, di riuscire a salvare famiglia, azienda e operai.

Di quella azienda conosce tutto e tutti, fa parte dei suoi ricordi, vi rivede il padre e lo zio “sempre all’opera, con le loro tute blu rinforzate sulle maniche per non bruciarsi. Davanti portavano un grembiulone di cuoio, simile a quello dei macellai, per proteggere il corpo dai possibili contraccolpi delle macchine. Negli anni, accanto a loro, hanno lavorato e sono cresciuti tanti ragazzi, che poi si sono fatti una famiglia; alcuni ormai sono anche diventati nonni”.

La ditta è un circuito di lavoro e d’affetti riassunti in un altro ricordo: “la stanza dei nonni paterni, emigrati dal Polesine nella campagna bonificata della Brussa, dove la terra era stata strappata al mare e coltivarla costava fatica. In cerca di fortuna, i nonni si erano portati la camera da letto su un carro trainato dai buoi, insieme all’unica ricchezza in dote, le lenzuola in lino ricamate a mano”.

Serenella descrive stanze perfette, con centrini ricamati sul comò, bambola vestita di pizzo sul letto, profumo di pane abbrustolito, latte bollito, burro caldo per la merenda.

Benché “le radici della famiglia affondano in una storia di miseria e di sacrifici” con ben altra disperazione, nel 2012, dovette scegliere di pagare gli stipendi e non i contributi, ben consapevole del rischio che correva: “Ho scritto all’Inps e all’Inail. Era mio dovere effettuare i versamenti a carico dell’azienda ma se l’avessi fatto avrei dovuto licenziare. Non chiedevo carità, solo che le situazioni vengano analizzate nel profondo, perché non siamo numeri”.

La seconda parte del libro s’intitola emblematicamente “il crollo”: un girone infernale tra istituzioni, Prefettura, Guardia di Finanza e, a sua volta, creditori.

Ultimo messaggio in bottiglia, una lettera su La Repubblica che, vera oltre ogni propaganda, suscita la solidarietà di quanti/e si trovano nella stessa situazione. Uno di loro le impedirà di compiere un gesto estremo alla scoperta che l’azienda (x) non pagherà mai il suo debito avendo dichiarato “un improvviso fallimento”.

Serenella “non vuole fallire”, con il “non” sottolineato due volte. I debiti li rateizza non così la responsabilità penale che l’ha resa punibile con la reclusione fino a tre anni e una grossa multa. Dedica tutta la terza parte del libro al conforto ricevuto da amici, famiglia e operai. Alla lotta giornaliera che diventa un’azione collettiva con titolari di aziende nella sua stessa condizione.

I debiti li rateizza non così la responsabilità penale che l’ha resa punibile con la reclusione fino a tre anni e una grossa multa ma commessa su commessa, lei e l’AGA cominciano a riprendersi.

Sono pagine di vita di una famiglia, di un’azienda e di una società.

“Il libro della vita non dovrebbe finire mai (…) ho giocato le mie carte, ora devo cercare di mantenere quello che ho e non perdere di vista quello che voglio restare.”

Il finale è aperto, ma il libro si chiude con un’intervista a Roberto Fontana, per 17 anni giudice delegato del Tribunale fallimentare prima di Monza e poi di Milano e nel 2015 sostituto procuratore di Piacenza.

Le domande di Elisa Cozzarini sono di bruciante attualità: Come mai nel nostro Paese le crisi delle imprese vengono a galla tardi, quasi all’improvviso, quando ormai il valore economico è già dissipato e a beneficio dei creditori resta poco o nulla? Qual’è la responsabilità degli imprenditori di fronte al dissesto della propria attività? Come mai è sempre più diffuso il ricorso al concordato, anche quando ci si trova in realtà di fronte a situazioni tipiche del fallimento? Come è possibile che aziende con bilanci sani fino a pochi mesi prima falliscano o chiedano il concordato proponendo percentuali irrisorie ai creditori, quando non zero? Esistono in altri Paesi misure che favoriscono l’emersione delle crisi aziendali, per evitare lunghe catene di insolvenza? Si sente dire spesso che gli imprenditori un tempo erano diversi, ci si poteva fidare. É vero che oggi la situazione è peggiorata?

Riportiamo solo stralci dell’ultima risposta:

“Oggi i meccanismi di prevenzione sociale non sono certamente più sufficienti e non bastano neppure i sistemi dell’autoregolamentazione delle imprese, date soprattutto le cosiddette asimmetrie informative, per cui la maggio parte dei creditori scopre l’insolvenza dei propri debitori troppo tardi e si trova molto più esposto alle relative conseguenze rispetto ai creditori con flussi informativi privilegiati. I singoli creditori, poi, quando scoprono l’insolvenza, finché possono, cercano comprensibilmente di strappare un qualche risultato per sé e non avviare procedimenti di sistemazione razionale del dissesto. A questo si arriva quando ormai vi è un cumulo di macerie e tali sistemi si rivelano in gran parte dei simulacri o, in altri termini, quasi una beffa per i creditori, perché ormai è rimasto ben poco da liquidare e ripartire.”

Un libro da leggere per capire un settore, tra i principali, del mondo del lavoro.