Gabriella Nisticò
Gabriella Nisticò

Perché ritieni importante la partecipazione all’inaugurazione della mostra 1946: il voto delle donne?

Il 2 giugno del 1946 è stata una svolta epocale per le donne che va sempre ricordata e insegnata a tutte e a tutti. I diritti si conquistano con lunghe battaglie e si devono continuamente difendere perché si possono perdere da un momento all’altro, in specie quelli che ancora si scontrano con sacche di patriarcato, sinonimo di potere, unito a repressione, discriminazione, violenza e sopraffazione delle donne. La mostra, curata da Maria Paola Fiorensoli, Fiorenza Taricone, Gabriella Anselmi e Irene Iorno, ci fa vedere la lunga marcia per la nostra cittadinanza a partire dalla Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges, dichiarazione che durante la Rivoluzione francese le costò la testa, mozzata dalla ghigliottina e non durante il Direttorio, momento conservatore della rivoluzione, bensì nel momento più avanzato nel 1793 con Robespierre e Saint  Just al potere, uccisa in quanto donna e per giunta di cultura e che si permetteva di parlare di diritti. Del resto, nel 1912 gli stessi socialisti, malgrado la spinta notevole del movimento suffragista ed emancipazionista, dichiararono attraverso Turati, malgrado la pressione di Anna Kuliscioff, che i tempi non erano maturi. E così si perse il primo ventennio del Novecento, che vide estendere il voto alle donne in molti paesi europei e in Canada e USA, da noi arrivò il fascismo e gli anni perduti diventarono più di quaranta. Fu grazie ai Gruppi di difesa della donna, alle partigiane combattenti, alle staffette e, nelle fabbriche, alle operaie che portarono avanti grandi battaglie e alle gappiste nelle città, alle contadine che diedero aiuto e nascosero i combattenti per la libertà braccati, alle donne dei partiti clandestini e dei centri esteri, delle associazioni e di tutta quella popolazione femminile sofferente sotto il fascismo, che si poté conquistare il voto nel 1946. Subito dopo la liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, le donne delle associazioni erano pronte. Il ruolo delle donne dell’UDI e del CIF, associazioni che si costituirono tra l’autunno del 1944 e il 1945, fu determinante nell’immediato dopoguerra anche come forza di pressione nei confronti dei due partiti di massa, il PCI e la DC.

13 milioni di donne italiane si misero quindi in fila da nord a sud, da est a ovest. E il 2 giugno del 1946 ci regalarono la Repubblica e le nostre 21 Madri costituenti. Senza di loro e la loro azione attenta nella Costituente la nostra parità e i nostri diritti inseriti nella carta costituzionale sarebbero stati messi a duro rischio. E molta fatica si sta ancora facendo per la piena attuazione.

Questo significa la mostra, arricchita anche delle testimonianze delle ormai poche donne in vita che hanno ricordato le sensazioni e le emozioni di quella giornata, ed è giusto che sia nata itinerante per far sì che non si dimentichi una data così importante per le donne italiane e per la democrazia. Grazie a questa mostra, che a mio avviso deve trasformarsi da evento temporaneo a mostra permanente presso la Casa internazionale delle donne, molte persone, ragazze e ragazzi potranno comprendere la portata epocale del voto del 2 giugno 1946. Per un approfondimento, in tanta letteratura mi permetto di consigliare Anna Rossi-Doria, Diventare cittadine. Il voto alle donne in Italia, Firenze, Giunti, 1996.

 

Secondo te nella società italiana contemporanea è chiaro da quale situazione delle donne si partiva, intendo dall’unità d’Italia?

Secondo me non lo è ed è una questione di libri di testo e di educazione civica, di cui se possibile parlerò dopo. Brevemente, per noi Italiane, l’unità nazionale non fu un passo avanti. Furono subito dimenticate le patriote del Risorgimento, e le donne post 1861 furono recluse in casa e depredate in tutti i sensi, dalla libertà alla dote. Il c.c. (codice civile) del 1865 promulgò una normativa che oggi definiremmo “talebana” relativa al matrimonio e al patrimonio dotale: marito capo famiglia, padrone della moglie e di figli e figlie, le donne sposate chiuse dentro casa e senza possibilità né di lavorare né di autosostentarsi (anche per coloro che avevano ricevuto la dote però in mano al marito) nel caso volessero uscire dalla situazione che John Stuart Mill chiamò di “assoggettamento” (o “servitù” come nella trad. it. immediata della grande femminista Anna Maria Mozzoni). Il romanzo autobiografico Una donna di Sibilla Aleramo uscito nel 1907 è una testimonianza importante della condizione della donna, anche però della capacità di affrancamento non senza dolore. Nello stesso 1865 anche la legge elettorale amministrativa escluse le donne appaiate con minori e interdetti, analfabeti, falliti e detenuti. Uno dei tanti paradossi e incongruenze del rapporto tra il potere e le donne si evidenzia però nello stesso 1865, con le prime 100 maestre, che si dimostreranno un vero cuneo inserito nelle istituzioni, che presero la patente per insegnare ai primi anni della scuola elementare e nel 1875/76 il numero delle maestre avrebbe superato quello dei maestri, anche se con stipendio più basso (in moltissimi casi ancora discriminazione attuale). Agli inizi del 1900 il numero delle maestre aumentò a dismisura ed esse divennero lo zoccolo duro del movimento emancipazionista. Nel secondo dopoguerra non succederà come invece era accaduto dopo la grande guerra, durante la quale le donne che avevano sostituito in tutti i settori gli uomini al fronte, al loro ritorno furono licenziate in massa. Le donne avevano compreso che il lavoro era la strada dell’indipendenza economica e, insieme, della libertà di scelta. Dovremo comunque aspettare, a onta della carta costituzionale, la riforma del diritto di famiglia del 1975 per riappropriarci della parità tra i coniugi fino al nostro cognome.

 

Qual è il tuo rapporto/esperienza con gli archivi?

Io sono pressoché nata negli archivi. E sono certa che per dar conto del soggetto imprevisto sia necessario scavare. E infatti è una vita che scaviamo

Ho iniziato a lavorare negli archivi della Resistenza nel 1972, appena laureata in filosofia, all’Istituto Gramsci di Roma e all’INSMLI di Milano. Con una piccola borsa studio del CNR entrai nel gruppo di storici che stava attendendo alla curatela della prima edizione critica dei documenti resistenziali. Gli storici erano Claudio Pavone, Giampiero Carocci e Gaetano Grassi e con loro lavorai quasi 8 anni per far uscire Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti (3 voll., Feltrinelli, 1979, il II è a mia cura). Nel 1975 entrai alla Treccani e ai primi anni ottanta riuscii a costituire nell’Istituto l’Archivio storico che ho diretto per molto tempo prima di diventare caporedattrice, e alla fine degli anni ottanta sono stata l’ideatrice della rete Archivi del Novecento degli Istituti culturali e ho seguito da vicino la rete Lilith e nel 1994 sono stata anche docente nei corsi per documentaliste del progetto NOW al Circolo della Rosa di Roma. Dal 2009 poi sono presidente di Archivia e mi rendo conto che c’è stata una preponderanza di archivi nella mia vita. Ma fu nel periodo dell’edizione critica che mi ero resa conto del silenzio sulle donne  nei documenti ufficiali della Resistenza seppur clandestini. Le donne quasi non esistevano, tranne alcune come per es. Gisella Floreanini, ministra della Repubblica dell’Ossola, zona liberata dai partigiani nell’estate del 1944 e rioccupata dai nazifascisti 40 giorni dopo. E’ stato poi illuminante  il rapporto di un ispettore del PCI poco prima del 25 aprile 1945 che a proposito del contributo delle compagne partigiane sosteneva che la loro organizzazione seppur buona non si era potuta rafforzare “per colpa dei compagni che la sabotano”. E che alla richiesta di avere una rappresentante dei Gruppi di difesa della donna nel CLN, “il democristiano avrebbe obiettato che tale organismo non è riconosciuto dal CLN”  (Informazioni da Milano, 22 aprile 1945, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, III, p. 675 e sgg.). Nel 1976 uscì La Resistenza taciuta, a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina (Milano, La Pietra, 1976) con  le interviste a 12 partigiane a testimonianza della grande partecipazione attiva delle donne alla liberazione dal nazifascismo.

Puoi parlarmi della proposta di riscrittura della nostra storia nazionale a partire dal 1861, una storia che tenga conto del protagonismo delle donne, che hai lanciato durante il convegno?

 Sì, io sono convinta che sia necessario fare un salto verso la riscrittura della storia nazionale, cioè che la storia delle donne e le tematiche di genere divengano sempre più parte integrante e a pienissimo titolo della storia nazionale almeno dal 1861. Attraverso la microstoria sono stati approfonditi gli studi settoriali di molti aspetti della storia delle donne nella società. La storia delle donne e gli studi di genere, anche se ancora sottovalutati in Italia a livello accademico, hanno fatto comunque passi da gigante. Le nostre storiche soprattutto ci hanno aperto molte strade, ma per riuscire a trasformare questi studi in un progetto didattico per ogni ordine e grado di istruzione la storia nazionale non può proporre l’oblio.

Si deve poter insegnare con metodi appropriati che l’Italia si è sviluppata con l’apporto del pensiero, delle pratiche e dell’azione delle donne, per acquisire un riequilibrio storico. Solo in tal modo  si impianterà e consoliderà un forte rispetto reciproco tra i generi, in mancanza del quale si è sviluppata nella nostra società una reiterata inaccettabile violenza sulle donne che giunge fino a estreme conseguenze, sino all’efferato femminicidio con spesso pedofilia associata. Il modo più efficace di prevenzione di tale violenza è la formazione al rispetto reciproco tra i generi. Il reato esiste, le pene anche, non esiste la ultranecessaria prevenzione, perché essa è soprattutto culturale e l’istruzione è il mezzo. Tutto quel che raccontiamo non si potrebbe oggi dire senza i separatismi finora necessari per far emergere da una storia occludente, sommersa e repressiva le donne, cioè la metà della popolazione italiana e non solo, la cui esistenza e la cui azione sono state troppo a lungo rese invisibili. Nello specifico, bisogna che i libri di testo di storia e delle altre discipline ne tengano ampiamente conto per formare su un piano di assoluta parità i nostri ragazzi e le nostre ragazze. Ma questo non dovrebbe essere un problema privato delle donne. Le massime istituzioni dello Stato  dovrebbero farsene carico. Tra i tanti progetti e comitati che esistono per ogni ricorrenza nel nostro Paese si dovrebbe avviare oggi un progetto che immetta nel corso della storia d’Italia le donne non come un box aggiuntivo a latere, ma a pieno titolo, come soggetto che seppur ampiamente discriminato ha pensato e agito e ha costruito il nostro Paese.

 

…e inoltre della proposta  di “costruire” una rete degli archivi delle donne? mi sottolinei l’importanza di quest’ultimo punto?

 

La riscrittura della nostra storia nazionale e la rete degli archivi delle donne sono strettamente collegate. Gli archivi delle donne sono le fonti fondamentali per la riscrittura e la scrittura della storia, non a caso l’UDI, il CIF e le altre associazioni femminili iniziarono sin dalla liberazione di Roma a raccogliere la documentazione associativa e di donne per far sì che non sprofondasse nuovamente, spesso nascosta negli archivi di famiglia o dei mariti, senza poter dare alla donna un cognome e una storia. Anche i movimenti femministi si mossero immediatamente sin dalla fine degli anni sessanta affinché non si perdessero gli archivi dei movimenti raccolti in corso d’opera: da una parte la rete Lilith avviata ai primi anni ottanta, dall’altra le Librerie delle donne,  la Fondazione Badaracco, l’Associazione Orlando e dal 2003 Archivia con Biblioteca specializzata di circa 25.000 volumi e i preziosi Archivi di movimenti e singole donne ne sono  il risultato. Negli ultimi 20 anni si sono strutturati molti progetti per l’emersione delle scritture femminili. Dagli osservatori negli archivi di Stato per l’emersione delle scritture femminili dal XVI al XX secolo sino alla rete di Archivi del Novecento acquisita dall’ICAR, alle guide regionali, con una copertura anche per il sud da Napoli a Catania e dalla tradizione consolidata dell’UDI, CIF e anche Fidapa in tutto il Mezzogiorno. C’è ancora molto da fare e da predisporre anche per il futuro. Ma bisogna essere consapevoli che una rete che saldi le diverse esperienze e serbatoi di saperi delle donne, nell’assoluto rispetto del contesto di provenienza, darebbe una possibilità in più alla riscrittura della storia passata del nostro paese e alla futura storia contemporanea.

Ricordiamo che l’intervista a Gabriella Nisticò relatrice nella giornata di inaugurazione della mostra convegno e presidente di Archivia patrocinante della mostra, è stata fatta nella giornata dell’inaugurazione del progetto in progress 1946: il voto delle donne.