Da la repubblica.it articolo di Raimondo Bultrini

Una sposa musulmana in India durante un matrimonio di massa (ap)

— La Corte Suprema indiana ha impiegato molte settimane per emettere una storica sentenza che dichiara illegale la pratica degli uomini islamici ortodossi di divorziare dicendo o scrivendo tre volte “talaq” (“sciogliere un nodo”). E’ stato il governo formato da religiosi a maggioranza hindu a chiedere il verdetto, poiché il triplo ripudio vìola il diritto sancito dalla Costituzione secolare dell’India sull’uguaglianza tra uomini e donne. Con poche riserve, i magistrati hanno dato ragione all’esecutivo.

Per dimostrarne l’illegalità, infatti, la Corte doveva capire quanto il divorzio istantaneo sia essenziale nella dottrina dell’Islam perché, in caso positivo, nessun tribunale civile per norma costituzionale può emettere sentenze quando si tratta materie di spirito. La Corte formata da un cristiano, un hindu, un parsi, un Jain e un musulmano, ha scoperto che Paesi devoti come Pakistan, Egitto e Turchia ritengono illegale l’usanza, e che in realtà la pratica risale a una delle prime quattro dinastie di eredi del profeta, gli Omayyad, sotto il cui regime le donne erano poco più che schiave.

I magistrati sono rimasti anche sorpresi di scoprire i molti e psicologicamente crudeli modi con i quali le donne testimoni avevano ricevuto il benservito in tre parole, soprattutto oggi con la diffusione degli smartphone e Face book, esposte al mondo della rete dopo l’umiliazione. Ma c’è stata qualche moglie che ha letto la micidiale sequenza addirittura su un foglio di carta igienica, altre sullo specchio del bagno, sulla porta di casa, perché tutti sapessero.

La sentenza della Suprema Corte potrebbe non interrompere del tutto tale odiosa forma di separazione, perché i gruppi fondamentalisti sconfitti in tribunale continuano ad avere un seguito tra la popolazione, specialmente quella maschile meno educata. Nella sua difesa del triplo “talaq” inviata alla Corte, un potente Consiglio per l’applicazione delle leggi islamiche chiamato in sigla AIMPLB, ha sostenuto che la legge rispetta i voleri del Corano perché di fatto protegge le donne dalle conseguenze di un loro rifiuto a divorziare.

“Se si sviluppa una grave discordanza tra la coppia e il marito non vuole vivere con lei, le obbligazioni legali di un processo di separazione e di spese richiederebbero molto tempo e possono impedire il corso legale. In questi casi (un uomo, ndr), può ricorrere a modi illegali e criminali per ucciderla (la moglie) o bruciarla viva”, hanno scritto con crudezza nell’affidavit i componenti dell’AIMPLB.

Ma al di là della logica surreale, il Consiglio delle leggi islamiche cerca in realtà di mantenere il controllo sulla distribuzione della giustizia tra il maggior numero possibile dei 150 milioni di musulmani che vivono in India dopo la Partizione col Pakistan. A legiferare sulla loro versione del Corano vogliono essere gli stessi imam che hanno lasciato intatte le discriminazioni secolari e le cause delle violenze, ben precedenti e spesso successive al “divorzio”. Infatti anche se letteralmente “talaq” significa “sciogliere un nodo”, nella realtà ne stringe uno attorno al collo della ex moglie, spesso lasciata senza alimenti, o con i figli a carico senza contare le stimmate della rifiutata.

Ma i dettagli umani non erano parte fondamentale dell’esame da parte dei giudici. Secondo il verdetto di tre di loro, si tratta di una pratica anticostituzionale per disparità tout court (la donna deve avviare molte pratiche e passare l’esame degli imam per ottenere il divorzio). Per gli altri due, invece, bisognava dare sei mesi al governo per trovare un’altra norma di compromesso che rispettasse i tradizionalisti e i liberali.

Per ora, in attesa di vedere applicato e fatto rispettare il divieto in ogni casa, conta la nota comune con la quale i cinque giudici hanno abolito secoli di vergogne: “Il triplo talaq – hanno scritto – non è parte integrante della pratica religiosa e viola la morale costituzionale”.

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Da Il sole 24 ore articolo di Gianluca Di Donfrancesco 

— C’è stata Indira Gandhi, primo ministro tra il 1966 e il 1977 e poi ancora tra il 1980 fino a quando fu assassinata nel 1984. E poi c’è stata Pratibha Devisingh Patil, 12° presidente, dal 2007 al 2012. E c’è Sonia Gandhi, leader del Partito del Congresso, e Mamata Banerjee, governatrice del West Bengal dal 2011. E poi donne ministri, donne manager e figure di spicco nella società civile e nella cultura. Ma poi ci sono le statistiche dell’Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo umano. E la fotografia cambia radicalmente.

L’India è al 131° posto su 179 Paesi monitorati per indice di ineguaglianza di genere (nel 2015 era al 125°). Pur non avendo mai adottato politiche di controllo delle nascite, ha un rapporto tra femmine e maschi decisamente sbilanciato nei confronti dei secondi (945 femmine ogni mille maschi, ma in alcuni Stati indiani si scende verso quota 900), che non si discosta troppo da quello della Cina, dove la politica del figlio unico ha innescato il fenomeno degli aborti “selettivi”. Sempre secondo l’Undp (dati 2016), solo il 35,3% delle donne raggiunge un’istruzione secondaria, contro il 61,4% dei maschi. Il tasso di partecipazione alla forza lavoro è del 26,8% tra le femmine e del 79,1% tra i maschi. Il reddito nazionale lordo pro-capite è in media di 2.184 per le femmine e 8.897 per i maschi. Solo il 12,2% dei seggi parlamentari è occupato da femmine. E poi ci sono le violenze sessuali sulle donne, come quelli che alcuni anni fa accesero l’indiganzione dell’intero Paese e diedero forza ai movimenti per l’emancipazione.

È in questo contesto che va letta l’abolizione della pratica del divorzio lampo musulmano, che pure non esiste né nella Sharia, né nel Corano. Lunedì, la Suprema corte indiana ha dichiarato incostituzionale l’antica pratica seguita nella comunità islamica del Subcontinente. Uno degli ultimi a rispettarla, abbandonata com’è in oltre 20 dei maggiori Paesi musulmani. Compreso il Pakistan. Il verdetto non è stato unanime: tre giudici si sono schierati a favore e due contro (i cinque membri della Corte, tutti maschi, sono un induista, un cristiano, un musulmano, un sikh e uno zoroastriano).

Secondo questa tradizione, al marito musulmano basta pronunciare davanti alla moglie per tre volte la parola «talaq», «ti ripudio», per ottenere un “divorzio” immediato. Senza processi, senza definizione giuridica dei rapporti economici tra le parti e verso i figli, senza nessuna tutela legale per le donne. Una pratica possibile perché l’ordinamento indiano riconosce alcune aree di autogoverno su questioni private come matrimonio, eredità, adozioni, alla comunità musulmana (come alle altre religioni), circa 180 milioni di persone che ne fanno il secondo Paese musulmano al mondo dopo l’Indonesia.

Il ricorso era stato avanzato da cinque donne musulmane, sostenute da gruppi che combattono per l’emancipazione femminile. Diversi ministri del Governo Modi, e il premier stesso, si sono schierati dalla loro parte.

Se le donne sono in generale discriminate nella società indiana, lo sono ancor di più nei gruppi sociali marginalizzati, come appunto i musulmani e i dalit (gli intoccabili).

In una dichiarazione al Financial Times, Kirti Singh, una avvocatessa e attivista dei diritti delle donne, ha accolto con favore il verdetto della Suprema corte, ma ha al tempo stesso criticato il Governo del leader del Bjp, Narendra Modi. Al Bjp, partito nazionalista fortemente legato alla tradizione induista, «non interessano davvero i diritti delle donne», ha affermato Singh. «Altrimenti farebbe qualcosa per mettere fine alla pratica degli omicidi d’onore di donne hindu, o farebbe qualcosa per evitare che le donne hindu siano trattate come cittadini di serie B».