viale In questi ultimi anni c’è stato il femminismo di Taylor Swift sulla copertina di TIME, il discorso di Chimamanda Ngozi Adichie al TEDx, il femminismo di Rookie e quello delle pornostar e pure quello dei Tumblr coi peli sotto le ascelle. A turno tutte e tutti abbiamo avuto la possibilità di definirci “femministe” (o femministi) e di criticare chi lo era troppo o non abbastanza.

Ma una femminista, nel 2016, cos’è? Che bisogno c’è del femminismo—se anche prima che Beyoncé comparisse davanti alla scritta cubitale FEMINIST Madonna inventava da zero il potere della popstar donna senza proferir parola politica e la cultura dello stupro, fanno notare in molti, è un problema dell’intera società civile e non del “femminismo”? Insomma, che cosa denota questa parola oggi e perché ne abbiamo bisogno?

Ho deciso di mettermi dalla parte del diavolo e di contattare Barbara Bonomi Romagnoli, giornalista autrice di Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio e femminista da prima che esistessero i blog, i social media e Taylor Swift per cercare di capire cosa sta succedendo.

Da un paio d’anni si parla di nuovo di “femminismo”, e molte ragazze anche giovanissime si sono riappropriate del termine. Eppure, “femminista” rimane anche un insulto—io a volte inizio un discorso dicendo “Non voglio fare la femminista, ma.”

Barbara Bonomi Romagnoli: È vero che alcune ragazze giovanissime stanno usando il termine femminismo, ma non sono la maggioranza—è ancora un tabù dirsi femminista. Credo che grazie ai social network e alla facilità di comunicazione in generale oggi la parola sia più tollerata, e ci sono stati alcuni casi di comunicazione più “leggera”, come quello di Emma Watson nel suo discorso all’ONU o quello di Chimamanda, che hanno aiutato. Aiutano, ma non risolvono.

Quello che temo è che non aiutino a capire cosa sia il femminismo—anzi, i femminismi, dato che i movimenti collegati nella lotta femminista sono stati molti [da quelli iniziali, che si proclamavano universali, a quelli che riconoscevano la specificità delle varie condizioni sociali, da quelli che predicavano il separatismo a quelli che includevano anche uomini] e uno dei grandi problemi dell’Italia è stato di considerarli come un movimento unico.

Secondo la narrazione tradizionale, dopo gli anni Settanta, periodo di grande fermento per la lotta femminista, in Italia ci sarebbero stati vent’anni di “buco nero”, in cui lentamente ma progressivamente si è tornati a quello che era l’ordine costituito e le istanze portate avanti dalle femministe si sarebbero in qualche modo perse nell’illusione di aver già raggiunto i propri obiettivi.

Non è vero che negli anni Ottanta e Novanta non è successo niente—diverse lotte sono state portate avanti in collettivi territorialmente distanti e a volte meno inclusivi. Si è lavorato sui diritti delle donne migranti, sono stati aperti i consultori e i centri per la violenza sulle donne che hanno poi via via perso i fondi per sostenersi. Il problema è che non si sa molto di quello che è stato fatto e le nuove generazioni rischiano di ripartire da zero.

Però è anche vero che non si può parlare di “aver ottenuto qualcosa” se non è penetrato nella coscienza comune, no?

Hai ragione, però anche rendersi conto della propria storia è fondamentale. Quando si gode di diritti fondamentali come il diritto di voto—quest’anno sono 70 anni che ce l’abbiamo, e non sarebbe stato

possibile senza il lavoro dell’UDI [Unione Donne in Italia]—e, per esempio, si dà per scontato di poter andare in giro vestite come si vuole, e che nessuno ci deve giudicare o molestare per quello, è necessario sapere da un lato che è frutto di battaglie di altre donne e che ci sono dietro percorsi di liberazione collettiva, dall’altro che niente è dato per sempre e bisogna continuare a battersi per questi diritti.

Penso che sia un po’ questo il senso del ritorno di “femminismi” oggi—è un po’ come se all’acquisizione delle libertà degli anni Settanta non fosse corrisposto un cambiamento reale della società; le vittorie di allora sono state fagocitate in dinamiche preesistenti. Per dire, oggi posso andare in giro in minigonna, ma qualcuno mi urlerà cagna.

Credo che uno dei problemi sia stato quello di fermarsi al piano della pura emancipazione: è fondamentale che oggi le ragazze possano vestirsi come vogliono e abbiano il potere e il desiderio di fare qualunque cosa nella vita, ma dare per scontato le cose senza pensarci non fa che il gioco degli altri. Sicuramente su questo ha pesato un ventennio di politica berlusconiana rivolta all’effimero e che ha costruito una certa rappresentazione delle donne nei media, e l’ingerenza enorme del Vaticano nelle politiche del nostro paese anche dopo la fine della DC.

Emma Watson nel suo discorso all’ONU ha detto di avere conosciuto molte persone “inconsapevolmente femministe”—secondo te la nostra generazione è più femminista dentro, per motivi culturali ed educativi, delle precedenti?

Non ne sono sicura. Un conto è essere il prodotto, come tutti, del tuo tempo e di chi è venuto prima di te, ma poi bisogna nominarsi e posizionarsi. Sicuramente c’è responsabilità anche da parte della mia generazione e di quelle che mi hanno preceduta. Da una parte voi forse non avete paura a usare il termine, ma dall’altra la sensazione è che sia stato “depoliticizzato”. Considera i fatti: l’Italia è indietro quanto a prevenzione, i consultori stanno crollando, c’è una conoscenza pressoché nulla dei sentimenti e delle relazioni tra le persone giovani, soprattutto i maschi che vengono cresciuti anche loro secondo determinati stereotipi. E quando si parla di queste cose, si ritiene siano solo cose “di donne”, invece un aspetto importante del femminismo è che abbiamo a cuore il benessere di tutti.

A questo proposito, molte donne che ultimamente ho sentito parlare sui media di femminismo rimarcano che “anche gli uomini non godono dell’uguaglianza,” nel senso che hanno solo stereotipi di maschio forte a cui rifarsi, e che il femminismo aiuterebbe anche loro.

Il grande errore secondo me è continuare a pensare che i femminismi escludano qualcuno. È il contrario, la cosa su cui insisto da sempre è che i femminismi sono—quando non di facciata, e se progressisti—completamente inclusivi.

È innegabile che oggi—penso ad attrici, penso a cantanti—il termine femminismo sia anche diventato un po’ mainstream e secondo me è un bene. Secondo te?

Sì, da una parte penso sia utile perché ha sdoganato il termine e dato la possibilità di arrivare a un pubblico più ampio che ha cominciato così a porsi interrogativi, dall’altra il fatto che sia un po’ irriflesso lo espone a qualche rischio, per esempio il moralismo. Ma ancora più pericoloso è quando questo femminismo un po’ di facciata, quello che io chiamo “femminilismo” si applica in politica: tutti gridato al miracolo perché il governo Renzi ha messo il 50 percento delle ministre nel governo—ma se guardo le nostre ministre mi viene da pensare che le pari opportunità in sé non bastano, se non sei capace di un pensiero autonomo.

In effetti, da un certo punto di vista queste “quote rosa” sono un po’ una barbarie.

Sono uno strumento utile dal punto di vista simbolico, ma poi rischiano di essere solo una concessione, e fermarsi al bilancino numerico rischia di non dare valore alla ricerca di contenuti. Non basta essere donne per dirsi femministe.

Un’altra caratteristica del femminismo attuale è che i suoi contenitori dedicati alle ragazze più giovani sono molto più ampi: sui siti dedicati si parla di ansia, depressione, non accettazione a scuola, body positivity. Tutte, diciamo, questioni importanti per le ragazze anche al di à di rivendicazioni vere e proprie. Sono più strumenti di condivisione.

È inevitabile che ci siano, grazie alle nuove tecnologie, ed è anche positivo, ma bisogna stare attenti alle questioni più di contenuto e di sostanza. Temo, da un lato, quando le situazioni diventano dogmatiche e identitarie, ma dall’altro anche il voler essere trasversali per tenere dentro tutte espone a grossi rischi—come successo al movimento Se non ora quando?, dove erano ospitate donne politicamente vicine a posizioni classiste, razziste e conservatrici.

Mi pare che comunque le differenze di questi contenitori rispetto anche alla terza ondata di femminismo [il movimento femminista è tradizionalmente diviso in tre segmenti, di cui il terzo ha più a che fare con la diffusione mediatica e la presenza nell’educazione delle istanze femministe] potrebbero spingerci a ragionare su qualcosa di completamente nuovo, una quarta ondata.

Certo. Anche perché la nostra generazione, la terza ondata, ha una forte necessità di fare politica. Però io sono un po’ restia a fare questa divisione in blocchi, nel senso che mi pare ci siano dei fili rossi che continuano: ci sono donne di tutte le età che si ritrovano per fare politica nel senso vasto del termine, come è trasversale alle generazioni il tema della sessualità più libera e consapevole. Nonostante tutti i Movimenti per la Vita che sono entrati a gamba tesa nelle scuole e hanno fatto la polemica del gender, penso che la società sta un po’ più avanti delle porzioni di umanità che cercano in qualche modo di indirizzare e controllare.

Credo che uno dei motivi per cui la mia generazione è diversa è l’avversione a una certa idea di femminismo, quello autoghettizzante e dittatoriale—se sei femminista fai così, se sei femminista pensi così.

Sicuramente vanno ripensati gli spazi delle donne, perché ce ne sono, appunto, di molto chiusi. D’altra parte c’è anche un problema di linguaggio, bisogna mettere in discussione quel codice burocratico e stantio e vecchio che rimanda sempre a certe espressioni e modalità di lotta e pratica politica.

Il punto, secondo me, è che a macro-fatti, noi ragazze occidentali siamo cresciute in un mondo che ci diceva, almeno a parole, che valiamo quanto i maschi—e questa è la differenza dal femminismo classico.

Certo, perché il problema numero uno della tua generazione è l’individualismo. Non avete l’idea di stare insieme come negli anni Settanta, ne avete una totalmente diversa. E siete passate attraverso gli anni Novanta, attraverso l’illusione che fosse stata raggiunta una “pace” tra uomini e donne. Però c’è anche da dire che le cose cambiano lentamente, soprattutto dopo millenni in cui è tutto uguale non possiamo pretendere che le cose cambino di colpo.

da http://www.vice.com/it/author/elena-viale

brbBarbara Bonomi Romagnoli, è giornalista professionista freelance (www.barbararomagnoli.info) e da qualche anno anche apicoltrice ed esperta di analisi sensoriale del miele (www.bioro.it).
È laureata in filosofia con una tesi su Louise du Neant: esperienza mistica e linguaggio del corpo. Da vent’anni si interessa di studi di genere e femminismi, ha partecipato a seminari, incontri, workshop e convegni sulla storia e i movimenti politici delle donne in Italia e all’estero. Ha collaborato e collabora con diverse testate, fra il 2002 e il 2005 è stata coordinatrice del progetto Radio Carta. Ha lavorato come ufficio stampa per convegni ed eventi culturali e presso l’ufficio stampa della Sottosegretaria ai Diritti e Pari Opportunità, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (2007-2008). Attualmente collabora con l’Iowa State University – College of Design, Rome Program e l’Osservatorio italiano sull’azione globale contro l’Aids.