Il termine femminista è piuttosto ondivago, a seconda che si tratti di ottenere finanziamenti istituzionali nominalmente dedicati a parità, differenza, genere, empowerment ecc. o che si sia davanti a chi ci sta proponendo una candidatura come specchietto per le allodole in fase elettorale (‘Ci serve una femminista. Ma tu non sarai mica femminista?’) o a seconda di colui che si vuol sedurre: gli piace dominare o essere dominato? Unica eccezione: I nietzschiani, per i quali più è difficile dominare, più gusto c’è. Oltre a ciò, c’è anche un ‘femminismo televisivo’, dove la qualifica viene da conduttori e conduttrici che qualificano ‘femministe’ personagge dell’ultim’ora le quali impropriamente se ne ammantano e spesso, più che femministe, risultano una caricatura di quello che si pensa essere femminista.

Chi considera il voto un ineliminabile diritto civile spesso non riflette sul significato negativo, peggio: ridicolizzante, attribuito nell’uso quotidiano al termine ‘suffraggette’, coloro che si batterono per il diritto di voto (suffragio) alle donne, né normalmente si ragiona, parallelamente, sul termine ‘femminista’ usato a vanvera sia in senso positivo, ma spesso solo strumentale, sia negativo, foriero dei peggiori pregiudizi sessisti. L’uso che più mi irrita, però, è quello in uso tra le salottiere di vertice, posizionate da gruppi di potere maschile o da mentori personali, che, emancipatesi solo per se stesse, ora – quando conviene – si dicono ‘femministe’, pronte a dissociarsene per sopravvivere dove sono state posizionate rispolverando il “ma non come le femministe, eh!”. Ecco, a me paiono come quel Pietro che rinnegò tre volte il suo maestro prima che il gallo cantasse.

Personalmente faccio invece riferimento al femminismo storico da me direttamente conosciuto, quello (‘storicizzato ‘ come ‘seconda ondata del femminismo’, dopo le filosofe dell’Ottocento, come se prima non ci fosse stato altro) che stupì l’Europa, le Americhe, l’Africa, l’Australia e l’India sul far degli anni Settanta, quando in Italia masse di donne di ogni età e condizione scesero in piazza spontaneamente in nome della liberazione (intesa nei differenti gradi del diritto all’istruzione, al lavoro, alla visibilità nel linguaggio e nelle arti, alla realizzazione di sé) con grande preoccupazione dei partiti di destra e di sinistra e dei loro allora forti corrispondenti internazionali.

Niente a che fare con finanziamenti (era possibile solo l’autogestione e l’autofinanziamento), con le candidature (sui banchi del parlamento e sui media unicamente facce maschili) o con la seduzione da bondage (si era ancora sulla scia del libero amore) e nessun conduttore avrebbe mai dato la parola in televisione ad una femminista (ma Pasolini intervistò Oriana Fallaci, Camilla Cederna e Adele Cambria, quest’ultima solo femminista). Purtroppo quel femminismo è stato esposto a stracciamenti di ogni tipo e non vi è stato podio da cui difenderne il significato. Anzi: sul più bello, negli anni Ottanta, partirono i media – supportati occultamente: se il lavoro delle donne venisse calcolato, salterebbero tutti i Pil della terra – a dire che ormai c’era il ‘riflusso’ e fu strategia bellica che fece presa. Molte ci credettero, rientrarono nel privato, crebbero i suicidi in una generazione di donne che aveva creduto di poter cambiare il mondo.

Era, comunque, quel femminismo, variamente interpretato (dalle femministe ‘pure’, dalle donne dei partiti che si stavano svegliando o dalle masse di religiose di ogni fede: ciascuna nel suo rifiutando ruoli di scorta e proponendo il valore sociale dell’essere donna). Vorrei ricordare, a questo proposito, una manifestazione, se non sbaglio del 1976, alla quale a Mestre, terraferma veneziana, confluirono femministe e Udi (Unione Donne Italiane) scese in piazza con l’intento di convogliare assieme la liberazione di cui erano portatrici le prime e l’emancipazione per la quale avevano fin dal 1943 lavorato le seconde. Il collante? La SORELLANZA FEMMINISTA, sulla quale poi molte, pur avendone beneficiato, sputarono, come un concetto banale e sorpassato, così come quando si vuole stupidamente confondere quel femminismo con l’emancipazionismo. Crimini consumati in famiglia, direi.

Pure, fu eroico anche l’emancipazionismo: ricordava nelle sue memorie Simona Mafai, direttrice di Mezzocielo, i duri scontri in seno al Pci a causa delle lotte femministe sull’aborto (uno degli slogan: “Berlinguer, non lo scordare mai, che sulle nostre pance compromessi non ne fai”), “quando – mi disse personalmente – voi stavate in piazza e noi rischiavamo di venir cancellate per quello che dicevate”. Ma come potrei essere ingrata anche verso le democristiane, se ebbi il mio primo lavoro grazie alla legge 285 sul lavoro giovanile voluta da Tina Anselmi, sebbene questa negasse ogni altro aspetto culturale e politico della ‘questione femminile’? E non so bene che, sugli asili nido (indispensabili per potersi ‘permettere’ un lavoro esterno alla famiglia), le Pli, le Dc, le Psdi, le Psi, e le Pci lottavano di comune intento? Ma avrebbero lottato allo stesso modo se a far testa d’ariete non ci fossero state le femministe (vere) nelle piazze?

Una postilla: oggi che la sinistra, intendetela come volete, di apparato si duole di aver sacrificato le ‘proprie’ donne a temi esclusivamente ‘femminili’ come gli asili nido, tace della vera e propria guerra fatta con ogni mezzo – dalla nullificazione di iniziative alla riduzione al silenzio alla replicanza tematica – verso donne indipendenti che in lei credevano di riconoscersi, mantenendo autonomia di pensiero. Per quanto riguarda sia la sinistra che la destra: non si è femministe in base al posizionamento (concesso, tra l’altro) cui si aspira nella gerarchia sociale.

Difficile spiegare il mondo di allora, degli anni ‘70. Una donna non usciva di sera, non andava nei bar, era sposa e madre esemplare, chiunque poteva pizzicottarla in autobus, semanticamente il termine donna era sospeso tra gli opposti stereotipi della Madonna e della puttana, si abortiva col ferro da calza, studiavano in gran parte solo i figli maschi, il lavoro era una concessione della famiglia mal compensata dalle aziende, le molestie pane quotidiano, le violenze sempre da lei provocate, le ragazze madri disonorate, il femminicidio un diritto: il delitto d’onore fu abolito solo nel 1968 quando decaddero le attenuanti per chi uccideva mogli, figlie, sorelle, fidanzate e financo la ‘prole illegittima’ se non ancora registrata all’anagrafe, il divorzio divenne legale nel 1970 e, pur nel diniego alle donne di misure anticoncezionali, l’aborto divenne legale solo nel 1978. Giusto per dare un’idea, i delitti d’onore erano motivati dal non essere vergine al matrimonio, dal rifiutare un matrimonio forzato, dal tradire il marito, dal chiedere il divorzio o separarsi e dall’essere stata violentata, cose che dovremmo ricordare nitidamente quando parliamo della condizione di donne di altre culture.

Quando sia nato il termine femminismo è tuttora oggetto di dibattito. La Scuola delle Donne® di Devana ha scovato che era in uso nel Settecento in ambito psichiatrico per indicare effeminatezza maschile, i più la attribuiscono al socialismo utopico di Charles Fourier (1772-1837), mentre la prima esposizione organica a me pare sia quella elaborata da Mary Wollstonecraft nel manifesto ‘Rivendicazione dei diritti della donna’ del 1791, scritto per l’Assemblea Nazionale francese che aveva dichiarato che solo le donne devono ricevere una educazione domestica. Ma quante prima – penso solo a Christine de Pizan o Moderata Fonte – avevano detto le stesse cose e di quante di loro non è rimasta memoria perché le loro carte furono cancellate e loro stesse perseguitate e uccise, finite sui roghi nelle epoche passate?

Altra postilla, essenziale: tra i pregiudizi vige quello che “le femministe ce l’hanno con gli uomini”, a me risulta invece operino per un bilanciamento tra i due generi, con spazio le varianti Lgbt che a sua volta hanno la libertà di chiamarsi come desiderano, tanto che non comprendo – se non a livello di efficace provocazione o di accesso ai pochi diritti frattanto acquisiti di fatto dalle donne o di visibilità mediatica – il bisogno di indebolire il termine femminista con il transfemminista che fagocita il femminile mettendone in ombra le istanze. L’azione a favore delle donne, ivi comprese quelle che lo sono diventate o che cercano di diventarlo, rimedia ad uno sbilanciamento attivo da una manciata di millenni a questa parte in un pianeta che gravi danni sta subendo da una gestione esasperatamente maschile, competitiva, guerresca, androcentrica ed economicista delle risorse comuni, gestione oggi esercitata anche dalla crescente ondata di sedicenti femministe omologate – se non create apposta – al peggior maschile.

Mi sovviene il passaggio dell’ intervento della redattrice di una storica ed attualissima testata delle donne che nel tratteggiare il lavoro comune ha detto: “Dal primo giorno all’ultimo non abbiamo mai abbandonato il criterio fondamentale di una rappresentazione non di noi stesse, ma della voce delle altre”. Ecco, questa a me sembra, a mio modo di intendere è, una FEMMINISTA, termine di merito che ritengo ognuna si dovrebbe saper guadagnare.