Articolo di Serena Carbone pubblicato su AlfaBeta2

—Perché non sono femminista di Jessa Crispin si muove nel dibattito contemporaneo rivendicando un ruolo da fuori gioco, se non fosse per quel sottotitolo: un manifesto femminista. Crispin, giovane attivista e blogger americana, con il suo pamphlet è lontana dall’elaborazione di una teoria interna al movimento, ma pone provocatoriamente delle riflessioni partendo dall’uso del linguaggio, condanna quindi la parola femminismo quando questa diviene vuoto riverbero di sillabe, sulla bocca di tutti, il più delle volte senza cognizione alcuna. E dalla lettura del libro emergono almeno tre temi che vale la pena di riportare: ai nostri giorni la discriminazione sempre più spesso non deriva tanto dal genere quanto dal ceto di appartenenza, ovvero dalla capacità economica di cui si dispone; la riflessione sul come si partecipa attivamente alle dinamiche di sottomissione; la mancata produzione di immaginari diversi dall’“amore romantico”, da quel “dovere amare” che sigla il finale di “e vissero felici e contenti”. Terminata la lettura, la domanda è rimbalzata su di me (e sulle mie amiche): perché sono o non sono femminista? E rispondere si è rivelato più complesso di quanto si possa immaginare.

Scrivere sul femminismo non è semplice, tutt’ora risulta irritante, eppure sono una donna. Sembrerebbe dunque naturale avere un’opinione in proposito, un’opinione precisa, chiara. Ma una donna non è solo un genere, non è solo una femmina, ma un individuo cresciuto in un determinato contesto storico-culturale che ha maturato delle esperienze specifiche e collettive.

Fare i conti con il femminismo richiama le donne della propria famiglia, le autrici della propria formazione, coloro con le quali si inizia a costruire il proprio immaginario. E avere a che fare con loro e qualora pensare differentemente da loro è come uccidere una e tante madri. Lessi Il secondo sesso a diciannove anni grazie a mia zia, e da lì poi tutti i libri di Simone De Beauvoir, e poi toccò a Virginia Woolf e anche a Oriana Fallaci, la giornalista impavida di Penelope va alla guerra che femminista proprio non si è mai detta. Poi per fare la tesi di laurea sugli intellettuali e la società nel periodo della Grande Trasformazione (1958-63) mi immersi in tanti autori, italiani e non, ma quasi tutti maschi, e questo non mi sembrava un problema, finché non giunsi alla conclusione che gli intellettuali, di sinistra in particolare, questa trasformazione proprio tanto bene non l’avevano capita. E un dubbio mi venne: possibile che nessuna donna avesse mai scritto in proposito? Andai all’UDI, sfogliai Noi Donne e altre riviste, le donne allora scrivevano soprattutto lì, ma non trovai nulla di significativo. Solo qualche anno dopo, un paio di righe di Miriam Mafai riaccesero la fiducia: la scrittrice, contro ogni deriva da casalinga disperata, annotava che le lavatrici erano state una salvezza per le donne, da sud a nord, ricche o povere, perché si potevano comprare anche a rate, perché i panni non si dovevano sciacquare più al fiume ma si potevano lavare comodamente a casa. E così dopo una stanza tutta per sé e l’indipendenza economica, ecco arrivare una terza condizione che probabilmente le contiene entrambe: il tempo libero. Tempo per leggere, per scrivere, per andare a ballare, per impegnarsi, per combattere, tempo libero per pensarsi libere, tempo liberato da destini prestabiliti. E così è stato… nel corso degli anni lotte ne sono state vinte, e non si può dire che le donne oggi non abbiano possibilità differenti rispetto a quelle di un secolo fa. Ma qualcosa si è rotto, ad un certo punto, di questo cammino. Allora penso di vivere in un tempo estremamente contraddittorio e confuso, in cui esistono plurime teorie e prassi che quasi mai sono coincidenti: si dice che sei libera di muoverti e di andare ovunque da sola ma se torni a casa una sera rischi di essere violentata, la moda impone i suoi parametri di seduzione ma poi se porti la minigonna ancora subisci gli sguardi altrui senza la capacità di sostenerli, si vocifera che si puoi scegliere chi amare ma aumentano i divorzi, si afferma che puoi divorziare ma se dici non ci sto più con te rischi di essere uccisa, si sostiene che puoi scegliere del tuo corpo ma se apri i giornali ancora saltano fuori dei rimaneggiamenti alla legge sull’aborto, si ritiene che pensarsi da sole sia giusto ma poi si va alla ricerca spasmodica dell’anima gemella, si parla delle pari opportunità ma se siedi a un tavolo di uomini devi ancora sostenere uno sguardo che prima di interessarsi alla mente spesso è più interessato al corpo, si prospetta una parità di diritti ma se rimani incinta, almeno nel privato, rischi il licenziamento e comunque il tuo stipendio sarà spesso e volentieri inferiore a quello di un tuo collega maschio… e così dicendo si potrebbe andare avanti ancora per un bel po’, e credo fortemente che altrettante contraddizioni, seppur diverse, oggi appartengono all’animo femminile come maschile.

Così mi ritrovo d’accordo con Jessa Crispin quando condanna la semplificazione a cui oggi è soggetto il linguaggio – non solo femminista ma della differenza aggiungerei – che diviene sempre più estremo da una parte, omologante dall’altra, miope di fronte alle contraddizioni della nostra epoca, indifferente al dubbio che un posizionamento critico impone. Non casualmente tale semplificazione e impoverimento accompagna la riemersione di stereotipi e modelli in cui il corpo femminile è ritornato oggetto, tanto che la legittimazione del valore di una donna sembra nuovamente passare sotto il vaglio dello sguardo maschile, e la modalità seduttiva, accattivante o addirittura remissiva sono ritornate ad essere parte “eccezionale” del femminile. Se esiste ancora oggi una discriminazione di genere, una subdiversità della donna trasversale alle varie culture, nonostante le teorie elaborate, le quote rosa dichiarate, i diritti conquistati (seppur ancora basici soprattutto nel lavoro privato), donne e uomini dovrebbero chiedersi il perché, senza la paura di intercorrere nel giudizio. E finché il linguaggio arrabbiato, estremizzato, non desideroso di ascolto ma solo di consenso continuerà a circolare, complice la rete, complici i media, allora qualsiasi discorso sul femminismo continuerà ad essere vacuo. Anche perché si dice, ma chi dice? Quella forma impersonale rimanda a una sorta di dogma non più ideologico, ma fantasmatico; per cui se prima sapevi contro chi combattere, ora il nemico non è poi così chiaro.

Ci si deve appropriare del linguaggio della differenza per essere differenti, per costruire immaginari differenti. E c’è un luogo più di ogni altro, prima dei media, dei social, della rete, dove questo può avvenire ed è il mondo dell’istruzione. La conoscenza è stata sostituita dall’informazione e dal commento all’informazione. La conoscenza va coltivata, amata, odiata, cercata tra i libri e per la strada, per poi essere messa in crisi, una, due, mille volte, perché dalla sola conoscenza può derivare la consapevolezza per capire quali siano le vere ragioni di un consenso, di un diniego, di una partecipazione attiva o passiva alle stesse dinamiche di subordinazione. Il pensiero complesso che ha sempre accompagnato il pensiero femminista, come qualsiasi pensiero critico, sono in crisi. E continueranno ad esserlo perché l’impressione è che si stia ripiombando in quello che la riforma Gentile aveva consacrato e il Sessantotto spazzato, una netta divisione tra le classi agiate e le classi disagiate, alle prime è assicurata un’istruzione di alto livello (ma con quali metodi?), alla seconda – la maggioranza – un posto in prima classe nei corsi di formazione professionale, a cui ormai si può accedere anche senza diploma, basta la terza media.

Per me la parola femminismo coinciderà sempre con uno spirito di libertà. E sento mancare il linguaggio del dubbio e dell’invisibile in un mondo che si esprime troppo in fretta. E se penso alla piccola scopa che mi regalarono da bambina non penso a una costruzione di genere ma penso a quando ci salivo sopra per fare la streghetta e iniziare a volare.

Perché non sono femminista. Un manifesto femminista di Jessa Crispin – Edizioni SUR 2018 – pp.133 / €16,50