foto di Alberta Aureli
foto di Alberta Aureli

REPORTAGE di Eleonora Camilli 

Viaggio nel campo informale più grande d’Europa dove da settimane si sfiorano le diecimila presenze. Ieri cittadini e camionisti hanno bloccato l’autostrada. Il governo in difficoltà promette lo smantellamento per tappe. Ma intanto la vita nel campo va avanti salvata dal lavoro de* volontar*

CALAIS – London calling c’è scritto sopra il murales che Banksy, l’artista di street art più famoso al mondo, ha dipinto all’ingresso del campo. London calling, perché qui a Calais la terra promessa è solo una: l’Inghilterra. Nel più grande campo informale di migranti e rifugiati in Europa ormai da settimane si sfiora la cifra record di diecimila persone. A nulla è servito lo smantellamento della parte sud del marzo scorso, la jungle, come la chiamano qui, è rinata dalle sue ceneri. Quasi tutt* afgan*, sirian*, eritre*, etiop* e sudanes*, vivono nel campo in attesa di poter attraversare il tunnel della Manica: c’è chi è stato respinto più e più volte, chi proverà illegalmente solo ora. Ma la strada per riuscirci è sempre più pericolosa. La distesa di tende che si perde a vista d’occhio è sovrastata da una doppia recinzione di filo spinato che corre lungo l’autostrada. Qui la polizia piantona giorno e notte perché nell’ultimo periodo si sono moltiplicati gli attacchi ai tir da parte dei trafficanti, che provano così a far passare i migranti. La tecnica è sempre la stessa: si buttano dei tronchi d’albero in mezzo alla carreggiata per bloccare la strada, il primo camion che passa è costretto a fermarsi e viene assalito. Un video della Bbc, girato lo scorso 25 agosto, ha ripreso una di queste scene: si vedono uomini armati di bastoni che minacciano prima un camionista, poi alcuni profughi, probabilmente, secondo l’autore del servizio, perché non avevano pagato abbastanza. Il dibattito sulla situazione a Calais si è così subito riacceso. Il ministro dell’Interno Bernard Caseneuve, ha visitato il campo il 2 settembre e in un’intervista al quotidiano locale Nord Litoral, ha promesso uno smantellamento per tappe, proseguendo così l’operazione iniziata tra febbraio e marzo. Ma è una promessa che in molti considerano vana. Ieri le associazioni di commercianti, insieme a quelle dei camionisti hanno deciso di dare vita all’operazione escargot. Quaranta camion sono partiti da Loon, trenta da Boulogne e, tutti a passo di lumaca, si sono diretti verso Calais, bloccando la A16. “Nous sommes des routiers, pas des passeurs” (Siamo camionisti non trafficanti) è lo slogan che hanno scelto. A protestare con loro anche circa 300 negozianti. Alla testa del corteo c’era anche la sindaca della cittadina, Natacha Boutchard, con indosso la maglia “J’aime Calais”. Quella di ieri è solo una delle azioni di protesta che le associazioni locali sono decise a portare avanti a oltranza fino a che il governo non darà risposte concrete. Qui tutti ripetono che la jungle va smantellata, non solo per motivi di sicurezza ma perché crea danni innanzitutto all’economia.

La rabbia dei commercianti: “questa è una guerra”. “Questa è una guerra continua, non se ne può più. Non ce l’abbiamo coi migranti ma anche noi dobbiamo poter vivere sereni”. La proprietaria del cafè La Marinerie, sul porto di Calais è una signora molto gentile, ma – dice – questa situazione dopo anni sta diventando insopportabile. Nessuno in città si sente più sicuro. Ormai tutti evitano di passare vicino al porto. “Mia figlia ha dovuto cambiare strada, da quando abbiamo saputo di questi attacchi. Ora ci mette dieci minuti in più per andare al lavoro. Le sembra giusto?”. Nel bar, dove fin dalla mattina i signori anziani bevono il vino rosè, tutti la pensano come lei. Non ci stanno a vedere la città dove hanno vissuto associata alla giungla: un danno anche per il turismo. Non ci stanno a sentirsi insicuri. Mentre esco dal locale mi raccomandano per ben tre volte di stare attenta ed evitare di girare di notte. “Fatti spiacevoli qui ne succedono di continuo”. In realtà camminando per le strade del centro la situazione sembra molto tranquilla. Calais è una classica cittadina di mare, con le case dai tetti spioventi e il mercato del pesce proprio davanti al porto. La giugla vista da qui sembra qualcosa di molto lontano e invece è solo a tre chilometri di distanza.

I migranti: “Salire su un camion è pericoloso ma è l’unica speranza che abbiamo”.  Ci si arriva da una delle uscite dell’A16. Quattro poliziotti stazionano all’ingresso, anche loro dicono di stare attenti: “lì dentro da un momento all’altro cambia tutto, non ci vuole niente a far scoppiare una rissa e noi non sempre riusciamo a intervenire”. All’entrata c’è una lunga fila di persone: è l’ora del pranzo, servito dai volontari di Help refugees e Auberge des migrants, le due principali associazioni di attivisti che operano a Calais. Mentre aspetta il suo turno Naid, 31 anni, afgano, mi spiega che la situazione dentro e fuori il campo è sempre più difficile. “Appena proviamo a uscire per strada la polizia ci rimanda indietro, in modo molto aggressivo, con bastoni e spray. Non vogliono farci avvicinare ai tir, ma per noi quella è l’unica speranza di lasciare questo posto”. E’ qui da due settimane. Nel suo paese faceva il traduttore. Parla 5 lingue, tra cui l’italiano. Dopo aver lasciato l’Afganistan ha fatto il viaggio passando per la Turchia e poi per la rotta balcanica, fino in Francia. In tutto ha speso circa diecimila dollari, ma è deciso a chiedere asilo in Inghilterra, sicuro che lì potrà ricominciare a lavorare come mediatore culturale o come traduttore: nel suo paese ha già lavorato con importanti organizzazioni internazionali. “Lo so che è molto pericoloso fare il viaggio così, in camion – spiega – ma voglio provarci. Cercherò di infilarmi in qualche modo, senza dover pagare ancora i trafficanti. Alcuni amici mi hanno detto che si può fare”. I tentativi di passare così la frontiera hanno fatto, però, già diverse vittime. Almeno quattro migranti sono morti negli ultimi due mesi, investiti dai tir sotto i quali si erano nascosti. Amir, 22 anni, afgano anche lui, ci ha provato già una volta: “sono stato fortunato ad arrivare dall’altra parte, ma la mia felicità è durata poco. Quando mi hanno scoperto mi hanno rimandato indietro”. Secondo il trattato di Le Touquet, firmato nel 2003 tra Gran Bretagna e Francia, il governo di Parigi è tenuto ad accogliere i migranti rimandati indietro dalle frontiere inglesi. Non solo, ma il patto sancisce un controllo incrociato dei confini: la polizia britannica vigila all’imbarco di Calais e quella francese opera dall’altra  parte. E’ molto difficile quindi non essere scoperti. Infatti il campo è pieno di persone che almeno una volta hanno provato la traversata. Najib ci ha provato nel 2008. Una volta arrivato ha subito chiesto asilo politico, ma la sua domanda è stata rifiutata. E così è dovuto tornare nella giungla. “Non proverò un’altra volta a salire su un camion. Ho paura di morire, è troppo pericoloso. Adesso voglio fare tutto in maniera legale. Sto cercando di fare domanda di ricongiungimento familiare con mio fratello che vive a Londra. So che le speranze sono poche per noi afgani ma è l’unica possibilità che ho per lasciare questo posto”. Mentre lo  dice ripone nello zaino un libro dal titolo “Re e regine di Inghilterra”. Aspettando di passare dall’altra parte studia per perfezionare l’inglese nella scuola appena fuori dal campo messa su dai volontari di un’altra associazione, Utopia 56.

Il lavoro de* volontar*. Uno degli insegnanti è Mael Verot, un architetto calesiano in pensione. “Ho 68 anni e sono di sinistra ma oggi sono disgustato, il nostro governo non sta facendo niente per queste persone. Nessuno in Europa sta facendo niente. Non capisco se gli stati sono più stupidi o più cattivi. Nessuno pensa a una soluzione seria, pensiamo solo a bloccarli da qualche parte. Intanto qui con la storia della giungla il Front national avanza continuamente. Io non ci sto. Per questo vengo qui e mi metto a disposizione. E’ l’unico atto politico che posso fare in questo momento”. La scuola a Calais è proprio davanti la parte rasa al suolo a marzo. Ci vengono soprattutto i ragazzi molto giovani, tra i 16 e i 22 anni. Chi vuole attraversare La Manica studia l’inglese, chi vuole chiedere l’asilo qui il francese. Accanto c’è una chiesa cattolica, mentre dentro al campo c’è una moschea, da cui il muezzin chiama alla preghiera cinque volte al giorno. Dato l’alto numero di persone una seconda moschea verrà costruita in questi giorni.

Una città nella città. La giungla è una città nella città. Ci sono piccoli negozi e forni artigianali dove si fa il khubz marcook, il pane arabo. Nelle scorse settimane la polizia ha annunciato lo smantellamento di alcuni ristoranti, ma le ong che lavorano a Calais sono riuscite a scongiurarlo, ora però tutti i proprietari vivono nel costante timore che questo accada. Nel giro all’interno ci accompagna Ugo Alessandro Conti, un volontario italiano di 23 anni, che è venuto qui per dare una mano agli attivisti di Help refugees nella preparazione dei pasti. “All’inizio dovevo stare due settimane invece resterò tutto il mese, fino alla fine di settembre”. Ha la passione per la cucina, ha studiato a Parma per diventare cuoco e in Italia lavora in un ristorante. “Mi piace cucinare, e mi piace farlo per loro, che sono brave persone, non come le descrivono. Certo ci sono anche situazioni al limite, ma non si può dire che siano tutti criminali. Non è giusto”. Ugo lo conoscono tutti, e tutti lo fermano per fare due chiacchiere. Lui per prima cosa chiede se il cibo era buono e si scusa perché il riso del pranzo non era ben cotto. Ogni giorno la cucina di Help refugees e Auberge des migrants fa circa duemila pasti. Gli altri vengono distribuiti dalle cucine di Belgian kitchen e Ashram kitchen, anche queste gestite esclusivamente da attivisti volontari.Mentre camminiamo un gruppo di ragazzi del Sud Sudan ci costringe a fermarci per un the. Anche tra di loro c’è qualcuno che parla italiano: nella giungla è la terza lingua, perché molti sono passati per il nostro paese prima di arrivare nel nord della Francia. Bokut, che viene dalla zona del Darfour mi chiede di tradurgli dal francese all’inglese un certificato che gli hanno rilasciato all’ospedale di Calais. C’è scritto che ha ricevuto torture nel suo paese. Quando glielo dico è sollevato, pensa che almeno ora gli crederanno, permettendogli di chiedere asilo.

Il balletto di cifre sulle presenze, tra settemila e diecimila. Per tutto il percorso nella giungla incontriamo solo uomini, tutti giovani, molti minorenni. La tensione è palpabile: non sopportano più i giornalisti, che in tanti, soprattutto dalla Gran Bretagna stanno arrivando qui per raccontare il peggioramento della situazione. Donne, invece, non ce ne sono. Sono confinate nella zona a nord ovest della giungla in container e tende bianche, insieme ai bambini. Per le violenze denunciate nel campo è stata creata per loro una zona ad hoc, dove il cancello si chiude dopo le 18,30. Sono comunque molto poche, circa mille, rispetto agli uomini che sono quasi 8000. Sui numeri reali delle persone nel campo va avanti da mesi un balletto di cifre tra il ministero degli interni francese e le ong: per il governo di Parigi i migranti in totale non sarebbero più di 7000. Le organizzazioni umanitarie parlano di oltre 9000 presenze (9106 secondo l’ultimo report di Help refugees di agosto 2016). Anche il sindacato di polizia Alliance ha diffuso, una settimana fa, una stima in cui dice che si è arrivati ormai alla cifra record di diecimila persone.

Nell’area di servizio dei camionisti: “vogliamo solo lavorare”. Tra i gruppi più numerosi, dopo gli afgani e i sudanesi, ci sono gli etiopi. Tra loro incontro Alex, 17 anni, che ogni giorno da settimane prova ad andare al parcheggio dei tir vicino al porto per infilarsi sotto un automezzo e passare. L’area di servizio dei camionisti dista solo 20 minuti a piedi. Nel parcheggio, quando arriviamo, qualcuno dorme dentro l’abitacolo in attesa dell’imbarco, altri mangiano dentro il piccolo autogrill. Kostantinos Skyrlas ha 47 anni e da 25 fa questo lavoro. Trasporta verdura dalla Grecia alla Gran Bretagna e carne dalla Francia alla Grecia. “Il problema della giungla c’è da più di dieci anni, ma negli ultimi tre è diventato un inferno. Noi camionisti abbiamo costantemente paura di essere assaltati dai trafficanti, ormai anche questa area di servizio è diventata impraticabile, siamo in pochi a venire ancora qui”. Un altro camionista greco, Ilyadis, mostra i segni di una rissa che ha avuto qualche mese fa con i passeur: “mi hanno preso a bastonate ma sono riuscito a scamparla. Questo è un problema che va risolto, noi non ce l’abbiamo con nessuno, vogliamo solo lavorare”. Sia Kostantinos che Iliadis sperano che le proteste possano servire a risolvere la situazione. Mentre lasciamo l’area di servizio un gruppo di ragazzi ci passa davanti correndo. Si dirigono verso il porto, ridono. Proveranno a passare stasera il confine, sperando di arrivare davvero nella terra promessa e di non voler tornare, invece, ancora una volta nella giungla. (Eleonora Camilli, foto Alberta Aureli)    nl@redattoresociale.it