Una frase di Guido Bertolaso che a ‘Fuori onda’ su La7 ha sottolineato che la Meloni “deve fare la mamma” e dedicarsi in questo momento a questo piuttosto che a fare la campagna elettorale per il sindaco. Fare la mamma, mi pare sia la cosa più bella che possa capitare ad una donna. Deve gestire questa pagina della sua vita. Non vedo perché qualcuno dovrebbe costringerla a fare una campagna elettorale feroce e, mentre allatta, ad occuparsi di buche, sporcizia…” Queste parole hanno riaperto un dibattito sulla inadeguatezza dei luoghi comuni e su modalità espressive che vorrebbero riportare le donne nell’alveo di ruoli non più compatibili con una loro presenza, sempre più significativa, in tutti gli ambiti della vita pubblica. Durante la rassegna stampa di Rai news 24 Roberto Vicaretti ha voluto sottolineare l’inadeguatezza della frase ricordando che nessuno si permetterebbe di chiedere ad un uomo di fare il padre e non il sindaco.
Sul problema di come usare frasi, espressioni e parole in modo corretto mi sembra interessante riprendere alcuni brani del testo “Amore, ascolto, accoglienza. Le risorse del femminile in ognuno di noi” – pubblicato dall’associazione “Il valore del femminile”, presentato a Roma l’8/5/2015.
Noi nasciamo “nel” linguaggio, e impariamo ad usarlo non come uno strumento, ma come un comportamento sempre più abituale man mano che, crescendo, ne facciamo esperienza. Lo usiamo prima per le sue proprietà magiche ed evocative, poi per quelle ostensive, nominali, poi ancora espressive e infine mnemoniche e temporali. Il linguaggio è quindi uno dei comportamenti espressivi tra quelli disponibili – c’è anche la gestualità, per esempio – perciò risente dell’ambiente e della cultura nella quale cresciamo e con la quale impariamo a rapportarci con gli altri, esattamente come tutti gli altri comportamenti espressivi.
Il sessismo è la discriminazione tra gli esseri umani basata sul genere sessuale; è una forma di razzismo. Si manifesta come presunta superiorità o presunto maggior valore di un genere o di un sesso rispetto agli altri, come l’avversione verso un sesso o un genere in quanto tale, o l’attitudine a giudicare moralmente in base a stereotipi, pregiudizi, luoghi comuni relativi al genere o al sesso, attribuendo qualità (positive o negative) in base al genere o al sesso.
Come “linguaggio sessista” si definiscono parole, espressioni, atti linguistici che manifestano sessismo e che quindi esercitano in varie forme la violenza sessista. Distinguiamo anche piani diversi del discorso, espressioni e comportamenti linguistici diversi, ma dobbiamo ricordare che nella realtà essi si presentano insieme, contemporaneamente, confusamente. Usiamo delle semplificazioni per poterne parlare, ma i fenomeni linguistici sono molto complessi e profondamente radicati nel nostro stare al mondo; per cui riconoscere e poi modificare le proprie abitudini linguistiche può essere assimilato a qualcosa di rivoluzionario e scioccante.
Per quale motivo esiste il sessismo è una domanda forse retorica, ma tentare una risposta non è affatto ridondante o pleonastico. Esso – come ogni altro razzismo – è uno strumento di potere politico e sociale, di quel patriarcato che mette le donne, e comunque ogni altro genere diverso dall’uomo eterosessuale, in un gradino inferiore al proprio. Attraverso la costruzione sociale della “virilità”, comunemente intesa, il sessismo permette di controllare le libertà personali e forme più “morbide” di esercizio del potere, come il paternalismo. Quindi il sessismo divide il corpo sociale in ruoli definiti e di facile comprensione (sesso forte, sesso debole, gli esclusi) e consente di giustificare socialmente il rancore degli uomini verso le libertà degli altri generi, come se attentassero a suoi diritti naturali e dati per scontati.
Possiamo dunque definire uno stereotipo come un gruppo di nozioni semplificate e largamente condivise su un luogo, un oggetto, un avvenimento o un gruppo riconoscibile di persone accomunate da certe caratteristiche o qualità, vere o presunte. E’ un’astrazione, uno schema di giudizio, un modello che può avere diversi valori; tende a essere sostituito più che cambiare, e spesso raccoglie l’opinione che un gruppo sociale ha di un altro. Gli esempi tipicamente sessisti sono “la checca”, la ragazza in minigonna, il trans/drag queen, la bella e incompetente, l’uomo che non piange, donna irrazionale e l’uomo freddo e calcolatore, e molti altri.
Un luogo comune è invece una formula linguistica la cui diffusione, ricorrenza o familiarità ne determinano l’ovvietà o l’immediata riconoscibilità – e le attribuiscono autorevolezza. La diffusione di un luogo comune non è necessariamente omogenea nella popolazione: può infatti essere limitata a gruppi in base a culture, interessi, professioni, orientamenti politici. Gli esempi sessisti più noti sono spesso proverbi o modi di dire, come “donne e motori, gioie e dolori”, o “donne e buoi dei paesi tuoi”; le espressioni “che c’hai il ciclo?”, “ma sei isterica oggi!”, rivolte a una donna che protesta o si agita; “meglio [qualità negativa] che frocio”, “le donne dicono no per dire sì”, “l’uomo è cacciatore” e numerosissimi, forse infiniti altri.
Riconoscere il linguaggio sessista e discriminate nel linguaggio naturale presenta alcune difficoltà. Il linguaggio naturale è una stratificazione di diversi linguaggi, e noi ci muoviamo tra questi linguaggi con competenze diverse; le evidenze studiate scientificamente sono sempre astrazioni da verificare sul campo. Quest’ultimo però è anche il vantaggio di lavorare con il linguaggio naturale: non si discutono astratti modelli ma esperienze.
Più in generale, come detto, il sessismo è una forma di razzismo che discrimina persone o gruppi a seconda del loro sesso, del loro genere, delle loro abitudini sessuali, veri o presunti che siano; e definiamo come discriminante anche qualunque forma definitoria riguardo il genere (nominazione, pregiudizio, stereotipo, luogo comune…) che non sia esplicitamente accettato dal ricevente. Probabilmente, com’è prassi recente, è più giusto parlare di sessismi, al plurale, perché le discriminazioni riguardo il genere sessuale possono essere attuate in tanti modi e verso gruppi diversi. Pensando al ruolo che hanno i media, di cui parleremo largamente più avanti, si può discriminare, ad esempio – volontariamente o meno – sia chi viene descritto in un articolo, sia chi lo legge; e si può discriminare sia attraverso la scelta di alcune parole, sia scegliendo la posizione o il modo di presentare le informazioni all’interno di un giornale.
Storicamente il sessismo più usato e accertato dalla tradizione sociale è quello che colpisce le donne, considerate praticamente da sempre dalla cultura occidentale come “costola di Adamo”, tanto per usare proprio una fortunata immagine letteraria della tradizione religiosa che ben rappresenta come e da quando esiste una considerazione non paritaria della donna. Considerando che le conquiste politiche e sociali degli ultimi decenni non posso avere la velocità di diffusione culturale necessaria per scalzare secoli di cultura maschilista – non necessariamente violenta, ma che certamente fa da sfondo alla violenza sulle donne, di qualunque tipo – il lavoro verso una reale parità culturale e sociale tra uomini e donne è ancora molto da fare e da portare avanti. Quello che è in gioco, è importante ribadirlo, non è solo a vantaggio delle donne, ma della libertà di relazione di tutti. Neanche gli uomini eterosessuali, costretti ad aderire al modello patriarcale, sono liberi di scegliere il loro modo di relazionarsi agli altri generi, anche se il prezzo del loro assoggettamento al potere patriarcale è ben ripagato da molti vantaggi sociali. Ne parleremo a lungo.
Il linguaggio naturale: insulti, modi di dire, i proverbi
Il linguaggio naturale, quotidiano, consueto, si sente spesso dire che è uno “specchio” della società e dei suoi usi e costumi. Anche questa, però, è una metafora fuorviante: il linguaggio non è solo il riflesso delle abitudini sociali, ma è anche in grado di cambiarle, distorcerle, farle conoscere, e soprattutto è ciò che ci introduce a esse condizionando fortemente il nostro modo di vivere nella società. Questa pacifica acquisizione di varie discipline non solo strettamente linguistiche va sempre ricordata, perché di fronte a gravi emergenze sociali nelle quali e per le quali il ruolo del linguaggio è primario, la banalità “il linguaggio è solo uno specchio” viene usata per banalizzare e spostare l’analisi scientifica delle questioni altrove.
Schematicamente e senza pretesa di esaustività, va sempre tenuto presente che il linguaggio naturale è, contemporaneamente: lo strumento con il quale nominiamo il mondo, i suoi oggetti e i suoi soggetti, le nostre emozioni, sentimenti e sensazioni, e quelle altrui; l’ambiente nel quale conosciamo per la maggior parte tutto ciò, che ci viene dato linguisticamente, non potendo conoscere tutto tramite l’esperienza diretta; il mezzo con il quale comunichiamo quello che riguarda la nostra vita e i nostri interessi, la nostra volontà e le nostre necessità, i nostri desideri, sogni e aspettative. Ridurre i fenomeni linguistici a uno “specchio” della realtà è quantomeno fortemente riduttivo, anche perché rimarrebbe da spiegare come questa realtà possa darsi a prescindere dal linguaggio.
Se possiamo immaginare un grado zero del sessismo abitualmente usato nel linguaggio naturale in ambito privato, ossia nelle situazioni amichevoli, confidenziali, di coppia, in un ambiente informale, esso è certamente quel vasto campionario di forme che vanno sotto il generico nome di insulti, o turpiloquio. Ancorché usati amichevolmente come motti canzonatori, gli insulti sessisti sottendono un pensiero universalmente diviso, come per essenze, in “buoni” e “cattivi”, valori positivi e negativi, moralisticamente divisi per natura in maniera eterna e insindacabile.
La più diffusa di queste espressioni insultanti è certamente “puttana”, alla quale si collegano le pressoché infinite serie di sinonimi e varianti locali e regionali, tutte le derivazioni più o meno ammesse anche in un linguaggio ritenuto non volgare (come il verbo “sputtanare”). Già la banale osservazione che il supporto corrispettivo maschile sia gigolò evidenzia una disparità sociale consolidata nella prassi linguistica. Un banale esempio con l’uso che se ne fa nel traffico dovrebbe illuminare sulla pesante eredità sessista di questa parola. La donna che al volante commette una (anche solo supposta) infrazione o manovra pericolosa viene etichettata con questo termine o suoi sinonimi o parafrasi, che alludono pesantemente e deliberatamente alla sua condotta sessuale. Stranamente, l’uomo che commette le stesse irregolarità è invece apostrofato come figlio di… oppure cornuto – cioè marito o compagno di una… – cosa che farebbe supporre la quasi totalità degli incidenti stradali come conseguenze della sregolata vita sessuale delle donne.
Sempre al sesso alludono due frequenti modi, è il caso di ribadire non solo giovanili, con i quali si etichetta la persona, i suoi atteggiamenti, le sue espressioni, nel caso in cui non risultino improntate a una normalità e regolarità eterosessuale consolidata dalla tradizione o dal senso comune più triviale. Frocio e lesbica sono, insieme anche in questo caso a sinonimi e varianti in numero considerevole, innanzi tutto la discriminazione sessista verso il “diverso” – e non importa né se né quanto lo sia davvero, basta anche un capo d’abbigliamento insolito, una parola troppo gentile, un modo di fare non aggressivo e può scattare l’insulto. Allo stesso modo, non essere una donna che si mostra disponibile, accondiscendente, o semplicemente che nel vestire non segue uno standard conclamato di femminilità, può dare adito a commenti pesanti e sessisti sulle proprie abitudini sessuali. Il fatto che molti tendano a sdrammatizzare questi comportamenti tirando in ballo concetti del tutto fuori luogo quali ironia, scherzi o “è solo una battuta”, fingono a bella posta o per ignoranza di sapere che i comportamenti sociali più discriminati o addirittura violenti trovano in quell’ambigua “ironia” il terreno migliore su cui svilupparsi. Non esistono comportamenti sociali neutri, o privi di conseguenze per gli altri.
Per questo vanno considerati parte del linguaggio sessista, e proprio perché molto comuni e diffusi, tutta una serie di espressioni e di luoghi comuni generalmente considerati complimenti, che invece portano con sé molta ambiguità e una notevole carica discriminante. Pensiamo per esempio alla facilità con cui uomini e donne continuano a pensare di rendere omaggio o comunque esprimersi positivamente verso qualcuna chiamandola figa (al centro e al sud anche fica): il meccanismo retorico, anche se molto comune, di chiamare un tutto con una sua parte (metonimia) andrebbe abbandonato una volta che ci si rende conto di usare “quella” parte del corpo per identificare qualcuno – il più delle volte, una donna. A riprova della solita disparità di genere tipica di un linguaggio che ha assorbito i valori più tipici del patriarcato, nessuno si sognerebbe di fare un complimento a un uomo chiamandolo come si appellano i suoi genitali. Anzi, tipicamente dare del coglione a qualcuno non è certo il modo per aumentarne l’autostima; mentre moltissime donne, al contrario, si fanno un problema cruciale della loro possibilità di apparire più figa possibile. Chi ha reso un valore sociale condivisibile il sesso delle donne come proprio strumento di compiacimento? Evidentemente, quel genere che detiene abbastanza potere da imporlo come standard: l’uomo eterosessuale.
Non a caso si viene abituati fin a piccoli a rendere la discriminazione sessista vigente in termini linguistici, crescendo con la consapevolezza – spesso riportata sia dal contesto familiare che dalla scuola – per cui esistono “ cose da maschi” e “cose da femmine”, discorsi prettamente maschili e discorsi esclusivamente femminili. Questa abitudine a non parlare abitualmente tra generi diversi proprio di ciò che culturalmente è stato imposto come diverso, porta al risultato paradossale di un numero sempre maggiore di adolescenti pieni di convinzioni assurde ed errate sul sesso opposto – ma con un linguaggio infarcito di pregiudizi ed espressioni sessiste. I luoghi comuni sul carattere femminile, sul ciclo mestruale come origine di ogni sbalzo d’umore, sulla virilità da testare in continuazione, sulla dimostrazione di essere propriamente “uomini” e “donne” socialmente accettabili sono la prassi ordinaria per molti ragazzi e ragazze che poi saranno uomini e donne. E queste false credenze, questi depositi di sessismi a disposizione dei parlanti vanno a disegnare la più abusata, trita ed erronea delle metafore, l’orribile “guerra tra i sessi” che si spende chiacchierando per commentare il più efferato dei femminicidi come la più banale delle discussioni d’amore.
Ricordando sempre che a decidere del significato delle parole sono l’uso che si fa di loro e il contesto nel quale si proferiscono, il senso comune sulle donne, e quindi di riflesso sugli uomini, com’è socialmente costruito, trova una esemplificazione tradizionale nei proverbi. «Moglie e buoi dei paesi tuoi» riesce a essere, in sei parole, razzista sessista e specista, probabilmente un record irraggiungibile; su «donna al volante pericolo costante» abbiamo sostanzialmente già detto sopra; «la donna è come l’onda, se non ti sostiene ti affonda» la dice lunga su cosa ci si aspetta socialmente dal genere femminile; «lacrime di donna, fontana di malizia» chiarisce l’aspettativa condivisa sulle emozioni e i desideri femminili; «donna ridarella, o santa o puttanella» non dovrebbe necessitare di spiegazioni; «donne, asini e noci vogliono mani atroci» basta a spiegare la costante giustificazione sociale della violenza sulle donne; e si potrebbe continuare per pagine e pagine, pensando alle lunghe tradizioni locali e di altri paesi. Tanto non sarebbe comunque possibile esaurire la saggezza popolare riguardo le presunte malefatte femminili, dato che «le donne ne sanno una più del diavolo»