A quanto si constata, la convinzione della “neutralità” della Giustizia è ancora dura a morire.
Viene fraintesa, infatti, con “uguaglianza”, nonostante la ormai pluridecennale distinzione tra discriminazioni tout court, e discriminazioni positive – queste ultime mirate ad affrontare e ridurre le oggettive disparità di genere.


Ci si riferisce, qui, all’applicazione della “giustizia riparativa” nei fatti riguardanti le violenze subite dalle donne all’interno delle famiglie.
Tale “giustizia” ha il suo nucleo nella mediazione tra vittima e colpevole del reato.
La “soluzione”, però, è molto difficile visto che il contesto relazionale tra il reo e la vittima è fortemente sbilanciato.
Il legislatore, quindi, non può non tenere conto dell’oggettiva complessità di situazioni che vedono le donne in una posizione di grande fragilità rispetto al reato e rispetto al reo, il quale, nello specifico, si trova in una situazione di “potere”, e quindi di intimidazione – più o meno carsica, quando non del tutto palese – all’interno del rapporto.
Le donne che denunciano sono molto poche, e ciò accade per paura, o per rassegnata assunzione del cilicio maritale offerto dalla tradizione.
Dunque, poiché le leggi non si riferiscono a realtà individuali asettiche, bensì a persone, uomini e donne in situazioni concrete molto complesse e in cui le disparità fanno ancora da padrone, bisogna tenere conto di ciò.
Bisogna riflettere sulla non sempre decantabile “neutralità”, per collocarla in una dimensione critica, revisionistica, che tenga conto delle politiche di genere, purtroppo ancora poco conosciute e praticate.
Occorre una nuova sensibilità, e un’adeguata formazione di tutte le figure professionali che intervengono nel problema.
Senza dimenticare il fatto che anche la Convenzione di Istanbul vieta questa forma di mediazione.