L’Autrice, giovane professora di geografia alla Sorbona, sceglie innanzitutto di posizionarsi, definendosi donna, cisgenere, europea, femminista, decoloniale, lesbica queer. Impegnata innanzitutto in un processo di coscientizzazione per imparare a superare il suo ruolo di oppressora epistemica per il fatto di trovarsi dalla parte di chi produce quello che viene considerato l’unico sapere legittimo, quello universitario, dichiara l’ambizione di “far esplodere i muri dell’Università” e far circolare, persone, saperi, riflessioni, esprimendosi in pratiche di insegnamento antioppressivo, di decolonizzazione della conoscenza.

Il nodo centrale è che la decolonizzazione, ovvero l’uscita dal colonialismo politico, è cosa ben diversa dalla decolonialità, che significa combattere contro la modalità complessiva con cui si è costruito il sistema mondo, ovvero contro la violenza della modernità. Quello che occorre imparare è pensare decolonialmente, ovvero rifiutare il primato del pensiero occidentale e del suo preteso umanesimo, ponendosi all’incrocio dei diversi contesti, rifiutando il razzismo istituzionalizzato: “sputiamo sulla civiltà”. E rifiutiamo anche un “femminismo esclusivo e di esclusione”, che riproduce colonialità, ponendo al suo posto una coresistenza nutrita di emozioni, affetti, cura reciproca e implicazione profonda, coltivando la potenza dirompente ed esplosiva delle relazioni.

Ognun* deve svestire i panni dell’oppressor* attraverso il tentativo costante di prendere coscienza del proprio privilegio, portando avanti pratiche ed esercizi per uscire dalla colonialità, immaginando una realtà caleidoscopica, pluriversale, ovvero fatta di un arcipelago di punti di enunciazione.

Ma non basta decostruire teorie, convinzioni e modi di pensare introiettati, occorre anche prendere posizione e mirare alla creazione di un mondo antioppressivo, antiautoritario, anticapitalista, antifascista, antisessista, anticlassista, antiagista, antiabilista, antispecista. Lotta quest’ultima che va coniugata con il femminismo in quanto lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento, rifiuto di dare valore agli individui in base alla loro specie di appartenenza: persone umane e persone non umane.

Per realizzare tutto questo l’Autrice ci fornisce un kit di montaggio degli elementi costitutivi della colonialità che abbiamo assimilato nel profondo, da combattere con un altro kit, quello degli strumenti di resistenza. Allegato un manuale di istruzioni e di consigli per utilizzare tutti gli elementi, disinnescandoli, ribaltandoli e ricomponendoli “in un assemblaggio irriverente e anti oppressivo”.

 L’idea è quella di superare tutti i binomi più diffusi, quali teoria/pratica, ricerca/attivismo, pubblico/privato, sapere intellettuale/ sperimentazione corporea. In effetti, l’Autrice fa propria l’azione di quei gruppi che usano il corpo come strumento di sovversione e trasgressione, come supporto per il messaggio politico.

Affascinata dalle performances delle attiviste postporno, capaci di veicolare amore, realtà e relazioni eccitanti, sperimenta una nudità impoterante prima in una serata di incontri queer alla Casa Internazionale delle Donne (Roma) e poi nel corso di una tavola rotonda all’Università di Bordeaux. Segue l’esperienza dei laboratori di bondage, squirting (eiaculazione femminile), produzione di sex toys, di BDSM, tutti “dispositivi di riflessione sulla soggettività, questione fondamentale nelle scienze sociali”.

L’Autrice si chiede infine se sia possibile realizzare un pornoattivismo accademico per ibridare i codici, contaminare gli spazi attraverso i corpi dissidenti e militanti e se, al fine di realizzare uno scambio paressiastico, sia possibile usare una pedagogia SCRUM, che significa utilizzare il margine come spazio contro egemonico di resistenza, secondo gli scritti della intellettuale femminista afroamericana Bell Hooks.